Sul 25 aprile il Paese è più avanti dei politici: certe fratture del passato gli italiani le hanno lasciate alle spalle da un pezzo

Sul 25 aprile il Paese è più avanti dei politici: certe fratture del passato gli italiani le hanno lasciate alle spalle da un pezzo
di Alessandro Campi
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Sabato 25 Aprile 2015, 09:52 - Ultimo aggiornamento: 17:03

Le scadenze tonde si prestano ad essere enfatizzate. È valso per i 150 anni dell’unità italiana e per i 100 dallo scoppio della Grande Guerra. Vale per i 70 che ci separano dal 25 aprile 1945. Viene dunque da chiedersi se l’enfasi politico-pubblicistica con cui si sta celebrando quest’ultima ricorrenza dipenda solo dal calendario o sia invece il segnale d’altro. Ad esempio d’un bisogno che gli italiani sentono molto forte, in una fase difficilissima della loro vita collettiva, a stare uniti. O magari d’un cambiamento del clima culturale e politico, che ha fatto tornare d’attualità i valori resistenziali. Probabilmente si tratta delle due cose insieme.

Alle proprie ricorrenze civili, dunque al proprio passato più o meno recente, una nazione si richiama con più forza nei momenti di smarrimento o difficoltà. La democrazia repubblicana, nel corso della sua storia, è stata lungamente divisa fra opposti fronti ideologici, ma la sua disunione politica non si era mai spinta sino a farne temere la dissoluzione sociale e civile, per la mancanza - che oggi si tocca con mano su ogni materia - di qualunque cemento emotivo o interesse condiviso. Per quanto mentalmente accecanti, le ideologie d’un tempo erano pur sempre un fattore d’integrazione collettiva e l’abbozzo di un futuro che ci si prefigurava migliore del presente. Oggi viviamo nel contesto di un sistema politico sempre più disarticolato e privo di istanze progettuali riconoscibili. Nel quale prevalgano sentimenti individuali che – soprattutto nelle nuove generazioni – oscillano tra rabbia e indifferenza, paura del domani e risentimento verso il prossimo.

Quanto basta per spiegare e giustificare la rivalutazione simbolica che si sta facendo della data del 25 aprile quale fondamento ideale e morale d’un Paese altrimenti destinato, come indicano molti segnali, ad una inesorabile disgregazione. A qualcosa una comunità deve pur aggrapparsi per continuare ad esistere.

Il fatto è che resistenza e liberazione furono fatti d’arme, in sé forieri di lacerazioni dal punto di vista del ricordo collettivo, reso più doloroso e controverso dal fatto che fu sparso all’epoca parecchio sangue fraterno.

Da qui la tendenza, che sembra caratterizzare l’odierna rilettura di quella data, a risolvere la lotta armata di una minoranza contro il nazi-fascismo in una dimensione sentimentale e civile di massa. La resistenza dunque come espressione di un desiderio di libertà comune a tutti gli italiani che avevano conosciuto gli orrori della guerra, come moto spirituale di popolo in direzione di quei valori di democrazia che la dittatura aveva conculcato per vent’anni e che la Costituzione avrebbe poi solennizzato.

Naturalmente non è questo il modo con cui la Resistenza – fenomeno elitario e territorialmente limitato, dalle molte e complesse articolazioni interne, dai contorni ideologici in alcuni casi ambigui, militarmente subordinato rispetto al ruolo avuto dagli Alleati nella vittoria finale – può essere raccontata nei testi di storia. Ma si sa che la storia che serve alla politica e alle istituzioni per dare forza alle proprie parole d’ordine non è mai quella reale o documentaria e spesso sconfina nella mitologia.

C’è poi l’altro aspetto di queste celebrazioni. Il fatto d’inserirsi, secondo alcuni, in un clima politico nuovo, che segna la fine definitiva dell’epoca berlusconiana e del revisionismo culturale in chiave anti-resistenziale che l’aveva caratterizzata. La fine dunque della retorica revanchista sul sangue dei vinti e delle equiparazioni strumentali tra le parti in lotta. Una lettura plausibile, ma vera solo a metà.

La dissoluzione della destra anti-antifascista si è infatti accompagnata, in questi ultimi tempi, alla metamorfosi ideologica che Matteo Renzi ha brutalmente imposto alla sinistra antifascista classica. Per quest’ultima – privata della gran parte dei suoi tradizionali punti di riferimento – il richiamo alla data-simbolo del 25 aprile sembrerebbe divenuto, più che uno strumento di lotta contro un avversario ormai in disarmo, un estremo ancoraggio identitario. Anche in questo caso al prezzo di forzature storiche e anacronismi culturali, come il confondere la lotta del passato contro il fascismo con la lotta odierna contro chi vuole cambiare la Costituzione.

LE INTERPRETAZIONI

Ma non c’è, anche in questo caso, da stupirsi. Le interpretazioni in chiave politica del 25 aprile, in funzione cioè degli equilibri di potere del momento, non sono una novità. Nei trascorsi settant’anni sono anzi stati la regola. Quello che resta da capire, anche stavolta, è quanto grande sia lo scarto tra le ragioni politico-istituzionali che sorreggono i festeggiamenti per il 25 aprile e il senso comune storico dei cittadini. Forte è l’impressione che gli italiani siano mossi oggi da altre preoccupazioni e pensieri, rispetto a quelli che agitano i loro rappresentanti politici, e che certe fratture o pagine dolenti del passato se le siano saggiamente lasciate alle spalle da un pezzo, dal momento che nella vita dei popoli la memoria è talvolta necessaria quanto può esserlo l’oblio.