Perché Yellen non si piega al pressing sul dollaro forte

di Osvaldo De Paolini
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Giovedì 2 Febbraio 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 00:08
Non ha sorpreso la decisione della Federal Reserve di lasciare invariati i tassi americani. Era infatti irrealistico attendersi che il pressing di Donald Trump per un dollaro basso avrebbe convinto la Fed a modificare la propria tabella di marcia sul costo del denaro.

La Banca centrale americana è una macchina formidabile che tuttora ha sostegni potenti nell’establishment, persino tra quanti sono apertamente favorevoli al Trump-shock perché sanno che una Fed indebolita dall’ingerenza della politica provocherebbe scosse devastanti sui mercati, con conseguenze pesanti su tutte le economie, chiuse o aperte che siano. Ma non accadrà, perché la Riserva Federale è sorretta da un’enclave costituita da banchieri-economisti che, soprattutto dopo la grave crisi di fine decennio, hanno le idee molto chiare sui rimedi da introdurre per impedire che la crescita deragli.

Sono loro i veri fautori della rapida ripresa americana dopo il crack Lehman, grazie ai 2.500 miliardi di dollari fatti affluire al mercato attraverso «misure non convenzionali» e grazie al mantenimento di tassi a livello zero anche quando i mercati premevano per un repentino cambio di rotta. Il presidente Janet Yellen, il cui marito è il Nobel per l’economia George Akerlof, è peraltro molto stimata anche da cinesi e giapponesi, i maggiori detentori del debito monstre americano: guai se percepissero che la Fed non è più in grado di assumere decisioni coerenti. Per di più questa enclave, che vede nell’indipendenza della Fed il bastione principale contro il potenziale sconquasso degli equilibri monetari, è fatta di gente che non guadagna cifre iperboliche e quindi non teme di perdere la poltrona: ciò significa che andrebbe fino in fondo, infischiandosene dei diktat che piovono dall’entourage di Trump. In più, ha interiorizzato in modo particolare le responsabilità della crisi e per nulla al mondo si presterebbe a politiche che potrebbero provocare nuovi disastri.

Quanto è accaduto al Dipartimento Affari Esteri americano, dove in poche ore tutta la prima linea si è dimessa per manifestare il dissenso verso la politica di chiusura commerciale annunciata da Trump, creando non pochi problemi alla neonata amministrazione, è un esempio di come si ragiona da quelle parti. Per farla breve, sui tassi la Fed non cambierà linea solo perché lo chiede Trump. Lo farà qualora l’economia americana dovesse tornare a declinare. Ma se i segnali continueranno ad essere positivi, nulla convincerà il board dei governatori guidati da Yellen ad abbandonare la via del rialzi graduali secondo la tabella ipotizzata a metà dicembre.

E questo Trump lo sa bene. Come sa che non può rimuovere la Yellen fino alla scadenza del mandato. Sarà un visionario eccentrico, come è stato definito, ma è tutt’altro che folle. Perché allora insiste sul dollaro basso? Per la semplice ragione che crede molto nella politica delle parole: insistere sull’arrivo di un forte stimolo fiscale, sul dollaro meno forte e sull’euro frenato dalla Germania, in una prima fase può produrre gratis gli effetti da lui desiderati: si veda il rapporto euro/dollaro di ieri e ieri l’altro. Ma quanto prima dovrà mitigare e mediare le sue pretese se vuole proseguire, perché è impensabile che i mercati alla lunga continuino a cibarsi di sole parole.

Il che non cancella le “colpe” della Germania, protagonista di un surplus delle partite correnti che è ormai un fattore di squilibrio a danno di tutti i partner europei e che col tempo ha messo a nudo anche il pesante disavanzo commerciale di cui soffrono gli Stati Uniti proprio verso i tedeschi. Ed è vero che l’euro, complice una burocrazia europea fortemente appiattita, ha favorito soprattutto il paese guidato da Angela Merkel. Tuttavia, non basterà certo il forte stimolo fiscale promesso da Trump alle imprese americane e la “chiusura” delle frontiere per mettere in sicurezza l’economia degli Stati Uniti.

Anzi, l’impatto di un drastico taglio delle imposte domestiche provocherebbe sicuramente un balzo dell’inflazione, quindi dei tassi e fatalmente del dollaro: l’esatto opposto di ciò che Trump spera di ottenere. Per questo, al di là degli editti e dei proclami, quanto prima la politica sul campo del nuovo presidente americano dovrà includere qualche compromesso, onde evitare di cadere nella trappola di cui egli stesso sarebbe artefice. E lo dovrà fare evitando di entrare in rotta di collisione con la Fed.

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