Gli Usa e la sfida del drago cinese

di Giulio Sapelli
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Martedì 15 Novembre 2016, 00:28
Pechino compie un passo di grande realismo, e insieme di grande audacia, nel proporsi alla nuova America di Donald Trump quale interlocutore indispensabile nella nuova fase della globalizzazione che sta aprendosi. Un passo che, di là della sorpresa per tanto ardire, si inserisce alla perfezione nella fase di neo protezionismo selettivo cui aspira l’America di Trump.
Un neo protezionismo destinato a porre fine a una crescita del commercio mondiale fondata sugli accordi multilaterali e sulla prevalenza della finanza e dell’industria high tech ad alta capitalizzazione di Borsa ma a bassa produttività del lavoro. La nuova fase è sospinta invece dall’industria ad alta intensità di capitale fisso e dal ritorno del principio della prevalenza relativa, del principio ordinativo della nazione su quello dell’economia di mercato aperto. La Cina, che non a caso quel sistema high tech non ha mai condiviso davvero e che ha solo accettato in forme nazionalistiche tipiche di una dittatura, è impegnata nella grande e per il momento irrisolta fase di sostituzione delle importazioni con produzioni nazionali in presenza di un processo di estesa urbanizzazione non ancora completato. Di qui la necessità di tutelare il nuovo ruolo acquisito nello scacchiere globale con la potenza, ovvero gli Stati Uniti, che da sempre è il crocevia dei grandi accordi commerciali. 
Il punto è che se l’intersezione tra le due potenze si realizzasse fino in fondo, a essere declassate nel sistema di pesi e rilevanze della geostrategia mondiale sarebbero la Russia di Putin e l’Europa di Juncker. La prima in ascesa sulla scena mondiale e non soltanto mediorientale; la seconda in decadenza relativa per incapacità strategica oltre che per eccesso di squilibri commerciali e di produttività del lavoro in un sistema di cambi fissi e di eliminazione della sovranità economica statuale, senza la creazione di un nuovo Stato democraticamente legittimato. Il blitz cinese è drammaticamente sfidante perché fondato sulla mossa del cavallo rappresentata dall’avvento pressoché simultaneo della Brexit e dall’alleanza strategica tra Londra e Pechino in quella che viene definita la Banca della Nuova Via della Seta (One Belt One Road) cui aderiscono tutte le potenze e le nazioni del mondo salvo gli Stati Uniti. In altre parole, mettendo gli Usa di fronte alle proprie responsabilità, chiedendo loro di scegliere tra tavolo comune o instabilità dei commerci, la Cina si autopropone quale nuovo centro archetipale del mondo. 
Del resto, è un’aspirazione che affonda le sue radici nella storia di questa immensa nazione. Non ci sono vie di mezzo: o cooperare con i “barbari” o combattere i “barbari”. Non è detto però che ci si debba combattere sin da subito con la guerra militare: all’inizio si combatte con le armi del commercio. In fondo è Trump che ha lanciato la sfida: l’impero di mezzo a questa sfida ora risponde. E se l’esito è più che mai incerto, la battaglia senz’ombra di dubbio certa.
Chissà se di questo parleranno il premier cinese Xi Jinping e il nostro Matteo Renzi allorquando si incontreranno tra poche ore in Sardegna. Se ciò avverrà, come probabilmente avverrà, significherà dunque che il legame tra l’Italia e gli Stati Uniti trascende la forma del governo politico per essere invece espressione di una organica condivisione del potere mondiale e della sua sicurezza, tenendo conto delle dimensioni relative del sistema di potenza. Una certezza in più che non guasta nel sistema dell’instabilità mondiale crescente.

 
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