La convention dem/Gli Usa divisi e la difficile scommessa della Clinton

di Massimo Teodori
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Sabato 30 Luglio 2016, 00:28
Con la candidatura presidenziale sancita dalla Convenzione Democratica di Filadelfia, Hillary Clinton chiude la stagione della lotta interna di partito con il concorrente Bernie Sanders, e avvia la più difficile campagna contro Donald Trump che si concluderà con il voto dell’8 novembre.

Alle primarie hanno votato circa venti milioni di “registrati Democratici” che hanno dato una lieve maggioranza alla Clinton, mentre saranno circa centoventi milioni gli americani maggiori di 18 anni che a novembre potranno scegliere tra i due maggiori candidati, il Democratico e il Repubblicano, e i candidati minori dei terzi partiti (Libertarian, Constitutional, Green) che, pur senza poter riscuotere alcun successo, potranno contribuire, da destra o da sinistra, a far vincere uno dei due candidati principali della parte opposta.

Nel discorso conclusivo Hillary, pur avendo svolto una serie di valide argomentazioni in contrapposizione ai proclami “dadaisti” di Trump, non è riuscita a passare dal registro tutto politico e programmatico a quello evocativo ed emotivo. Ha rivendicato l’orgoglio della prima donna che può salire al vertice del potere americano ed aprire la strada alle speranze di emancipazione a lungo agitate dal femminismo. Ha introdotto una ventata di ottimismo e fiducia per contrastare il clima di paura e rabbia su cui fa leva il dirimpettaio repubblicano.
 
 Ha rivolto un appello all’unità degli americani per affrontare le divisioni di razza e di classe che sussistono nella ricca nazione. Ha evocato le difficoltà economiche rivelate dalla crisi proponendo alcuni provvedimenti di welfare che dovrebbero realizzare le riforme impostate ma non risolte da Obama. Ed ha rivendicato la realtà di un’America che resta forte e orgogliosa di essere la prima nazione del mondo capace di garantire la sicurezza e combattere il terrorismo globale. Dopo avere chiesto di essere giudicata per i suoi meriti e le sue idee piuttosto che per le cariche del passato, la ex First Lady ha avuto il sostegno – che potrà essere decisivo – dalle personalità famose che l’hanno preceduta sul podio. Michelle ha riscaldato i cuori tanto da essere indicata come una possibile futura candidata alla presidenza.

Bill, ancora popolare tra i Democratici, ha recitato la parte del glorificatore dei meriti della moglie. Michael Bloomberg ha delegittimato l’immagine miliardaria di Trump, inviando così un messaggio ai Repubblicani dell’establishment finanziario. Infine, Barack ha posto il sigillo sulla Democratica che potrà succedergli ritmando il concetto che «Né io né Bill, nessuno, uomo o donna, è mai stato più qualificato di Hillary per la presidenza». I recenti sondaggi danno in parità i due contendenti.

Hillary dovrà quindi risalire la china su cui è scivolata negli ultimi mesi, in parte travolta dalle parole d’ordine trumpiste, generiche, roboanti e populiste sì, ma che sono risultate efficaci nel colpire le vene profonde del popolo americano non solo tradizionalista. La candidata Democratica dovrà quindi ricomporre in un blocco elettorale il variegato elettorato sospinto da pulsioni e interessi contraddittori. Dovrà consolidare il voto dei neri e degli ispanici che contribuirono ai successi di Bill e Barack. Dovrà riconquistare il favore di quella classe bianca impoverita compresa una parte della working class che si sente emarginata dalla modernità tecnologica e attratta dal protezionismo di Trump.

Dovrà convincere i giovani sostenitori di Sanders che adotterà la sua politica progressista contro l’establishment politico e finanziario. E dovrà, soprattutto, conquistare quegli americani “di mezzo” - indipendenti, Repubblicani scontenti e Democratici moderati - che possono risultare decisivi nella bilancia elettorale. Queste ed altre incognite rendono incerta la corsa alla Casa Bianca. Al clima di incertezza contribuisce anche un sistema politico che nella realtà d’oggi è profondamente mutato pur restando ancorato allo schema bipartitico. Molti sono i profili mutati negli ultimi tempi: i Democratici e i Repubblicani non sono più quelli della seconda metà del Novecento; i finanziamenti immessi nelle presidenziali 2016 hanno pesato meno che in passato; l’influenza delle nomenclature dei due partiti è decisamente diminuita rispetto alle spinte popolari manifestatesi nelle primarie.

Quest’anno, al centro della scena elettorale, sono balzate le proteste anti-establishment e le rivendicazioni economiche che erano già apparse a destra con i Tea Party ed a sinistra con Occupy Wall Street.
Il rapporto tra politica, economia e istituzioni nell’America di domani non sarà più quello di ieri. Trump, con la sua smodatezza e imprevedibilità, ha interpretato a suo modo tra la sorpresa dei maggiori politici, le trasformazioni sotterranee emerse in fase elettorale. Se prevarrà Hillary, che invece ha mantenuto il tradizionale stile politico, dovrà lavorare sodo per formare una nuova coalizione Democratica (come fece nel 1932 in un altro periodo di crisi Franklyn D. Roosevelt) partendo dal fatto che la linea ascendente dello sviluppo economico e del benessere sociale si è fermata dopo una lunga corsa iniziata nel secondo dopoguerra. E questa presa d’atto della nuova realtà vale per gli Stati Uniti come per tutto il mondo occidentale, a cominciare dalla nostra Europa.
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