Nuovi equilibri Ue/ La sterzata di Budapest e i suoi effetti a Bruxelles

di Alessandro Campi
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Martedì 10 Aprile 2018, 00:25
Ci si chiede, dopo la vittoria clamorosa e largamente annunciata di Viktor Orbán in Ungheria, quali conseguenze potranno scaturirne per l’Europa. Molti osservatori temono il peggio: il rafforzamento del fronte cosiddetto sovranista e identitario rischia infatti di rappresentare un freno al rilancio del processo d’integrazione. Così come l’affermazione di una forza politica presentata come d’estrema destra e pericolosamente incline all’autoritarismo rischia di rafforzare quel sentimento di ostilità verso la democrazia liberale e rappresentativa che si respira sempre più forte in molti Paesi del continente.

In realtà, prima di abbandonarsi a scenari tanto cupi converrebbe riprendere il fiato e chiedersi, innanzitutto, se non ci sia qualcosa di sbagliato o di eccessivamente sommario nel modo con cui si interpreta ciò che sta accadendo, non solo in Ungheria, ma in generale nell’Europa centro-orientale. Stanno tornando i fantasmi di un passato innominabile, a partire dall’antisemitismo, o più semplicemente si sono affermati in quell’area equilibri di potere, orientamenti culturali e convergenze politiche che spingono non solo verso un modello di democrazia ‘decisionista’ che ripropone con forza il tema (colpevolmente dimenticato) della difesa degli interessi e appartenenze nazionali, ma anche verso una differente idea dell’unità e dell’identità europee?

Già si dovrebbe essere capito, dopo anni di inutili allarmismi, quanto sia fuorviante e strumentale l’etichetta abusata di ‘populismo’, che per voler spiegare tutto ciò che non rientra nei canoni di una scienza politica da manuale universitario finisce per non spiegare nulla. Orbán è un liberale anti-comunista spostatosi nel tempo su posizioni nazional-conservatrici, a capo di un partito che da anni fa parte integrante della famiglia popolare europea. Al di là del suo esibito patriottismo, che si spiega facilmente alla luce della storia dell’Ungheria, dalle mutilazioni territoriali e di popolazione che ha subito a più riprese nel Novecento al tallone di ferro sovietico che ha dovuto sopportare per mezzo secolo, ha un approccio alla politica per nulla ideologico (in questo è assai diverso dal suo sodale polacco Jarosław Kaczyński), ma al contrario molto pragmatico, tattico e fattivo. I suoi nemici interni più risoluti sono gli esponenti di Jobbik, un partito di ultradestra xenofoba e antisemita sul quale parte della stampa progressista occidentale è arrivata a sperare pur di vedere Orban sconfitto. Se non è mala fede ideologica, è certamente miopia politica.

Il problema è che la confusione mentale è doppia e speculare, come dimostrano le reazioni italiane al voto di domenica scorsa. All’allarmismo pregiudiziale della sinistra, che vede in Orbán un dittatore in pectore emulo di Putin ed Erdogan, si aggiunge il semplicismo di una destra che lo saluta come il campione della lotta contro l’immigrazione, dell’anti-islamismo e di un nazionalismo che per definizione non dovrebbe essere il loro. Ad entrambi bisognerebbe spiegare che Orbán continua a vincere non perché aizza gli istinti peggiori del suo popolo, ma grazie ai tassi di sviluppo, benessere e crescita economica che ha garantito in questi anni di governo ai suoi cittadini, alla bassa disoccupazione e ai conti dello Stato in ordine. Gli ungheresi sono pragmatici e concreti esattamente quanto il leader che si sono scelti per altri quattro anni. 

Quanto alla possibilità che Orbán sia ormai il capo politico del fronte anti-europeo, rappresentato dai Paesi che hanno aderito al cosiddetto Patto di Visegrad, anche questa rappresenta una lettura semplicistica di ciò che sta accadendo nella parte centro-orientale del Vecchio Continente. Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Svolacchia sono un blocco geopolitico che rispecchia in buona parte i confini dell’antico impero austro-ungarico. Un blocco al quale, non a caso, l’Austria retta a sua volta da un’alleanza tra nazionalisti e popolari, guarda con crescente attenzione. Se oggi c’è affinità politica, ci sono anche legami altrettanto forti che vengono dal passato. Sono Paesi che hanno riscoperto, dopo la fine del socialismo reale e del blocco di potere sovietico, un forte senso dell’identità nazionale, ma che sono anche uniti da memorie storiche e culturali comuni. Ad esempio, dal fatto che il ritorno della democrazia e l’inizio di una relativo benessere per essi abbiano coinciso con la sconfitta del comunismo, laddove nell’Europa occidentale il fondamento della libertà è stato storicamente rappresentato dalla lotta contro il nazi-fascismo.

Ma non è solo un problema di passato. Questi Paesi, che noi immaginiamo uniti tatticamente solo dalla loro scelta di tenere ben chiuse le frontiere e di non accettare immigrati entro i loro confini, probabilmente sono anche animati dal desiderio di contare di più politicamente all’interno del concerto europeo. La scelta di Romano Prodi di integrare l’Europa ex-comunista all’interno dell’Unione, per favorirne l’evoluzione in senso democratico, è stata all’epoca una grande intuizione storico-politica. Ma si poteva immaginare che questi Paesi, ottenuto un relativo benessere anche grazie ai generosi finanziamenti dell’Europa (finanziamenti che peraltro hanno saputo utilizzare con grande intelligenza), si limitassero poi a svolgere un ruolo politico da comprimari o ad accettare un modello d’integrazione che cozza con la loro esperienza storica e con l’idea di indipendenza politica che hanno faticosamente conquistato?

Ciò che oggi essi sembrano contestare aspramente non è tanto l’Europa in sé, bensì la storica egemonia franco-tedesca (peraltro sempre più debole), rispetto alla quale ciò che propongono è una forma di partenariato, di maggiore ripartizione dei poteri tra Est ed Ovest, che si basa anche su un’idea dell’integrazione europea diversa, sul piano culturale e politico-istituzionale, da quella sin qui perseguita dai vertici di Bruxelles: verticistica, tecnocratica, tesa al superamento delle sovranità nazionali, formalistica e culturalmente agnostica. Un’idea che invece mantenga e tuteli l’autonomia degli Stati su alcune materie fondamentali. E che soprattutto rispetti le appartenenze e identità storiche delle nazioni che compongono il Vecchio Continente.
Se ciò è vero, lo scontro sulle politiche di controllo e gestione dei flussi immigratori ha funzionato da innesco di una divisione le cui origini sono in realtà più profonde. E che non si riassume nell’opposizione tra Europa e anti-Europa, ma tra due idee dell’Europa tra le quali, prima che la situazione sfugga realmente di mano, forse dovremmo trovare una sintesi nuova, realistica e che politicamente convenga a tutti. Ma a Bruxelles hanno consapevolezza che è questa oggi la vera posta in gioco?
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