La rivincita del Sultano: così ha sconfitto il golpe

La rivincita del Sultano: così ha sconfitto il golpe
di Mario Ajello
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Domenica 17 Luglio 2016, 00:38 - Ultimo aggiornamento: 12:34

ROMA La rivincita del Sultano è cominciata da FaceTime. Dal video sul telefonino in cui Recep Tayyip Erdogan, «papà Tayyip» come lo chiama chi lo ama e in Turchia come s’è ancora una volta dimostrato in queste ore ad amare il presidente del «miracolo economico» sono in tanti, ha detto al suo popolo: «Resisti contro i golpisti!». Parole pronunciate proprio tramite quella tecnologia internettiana che, dal tempo delle proteste anti-governative di piazza Taksim nel 2014 e anche da prima, Erdogan boicotta e stigmatizza così: «Twitter è una minaccia per il nostro Paese». Di fatto, dopo la notte dei carri armati e del loro flop, il Sultano resta Sultano. E che lo si ami o lo si odi, il presidente turco continuerà a suscitare passioni forti come accade soltanto ai grandi personaggi. Se Ataturk è stato il padre della Turchia moderna, Erdogan resta il ritratto della Turchia contemporanea. Capace - tra mille svolte e contro-svolte, rotture e riavvicinamenti sempre all’insegna di un pragmatismo cinico ma spesso lucido nelle sue asprezze da uomo agguerrito - di guardare al mondo islamico e di mantenere le alleanze strategiche importanti.

A cominciare da quelle con gli Stati Uniti e con la Germania, come s’è visto durante la notte del putsch ad Ankara. Lì dove questo europeista ma pur sempre musulmano, questo uomo dal pugno di ferro o dal polso fermo, questo outsider dell’establishment turco diventato da oltre dieci anni padre-padrone della nazione da che era piccolo venditore di limonate durante l’infanzia nel rione popolare di Kasimpasa a Istanbul, ha fatto edificare per la sua grandeur neo-ottomana una sede presidenziale che è trenta volte più grande della Casa Bianca e quattro volte più spaziosa della reggia di Versailles.

 
Da bambino oltre alle limonate vendeva simit, il tipico anello di pane con semi di sesamo, e mentre studiava alla scuola islamica e prima di laurearsi in economia faceva il parcheggiatore fuori dai club esclusivi della borghesia e ora guida 81 milioni di turchi da cui si sente rilegittimato. In un rapporto di identificazione tra il leader e il suo popolo, che è stato strettissimo fin dalla prima vittoria elettorale nel 2002. Erdogan, in questi quasi 15 anni di potere, tra trionfi economici e riforme (specie nel primo mandato), tra attitudine autoritaria (che lui nega aspramente) e capacità di parlare fuori dai denti il linguaggio della gente comune, ha incarnato una certa idea di Turchia. E dalla maggioranza della popolazione è stato, e continua ad essere, riconosciuto come il simbolo di uno spirito nazionale estremamente orgoglioso e determinato a contare sullo scacchiere internazionale.

CONSERVATORE La rivoluzione conservatrice di «papà Tayyip» ha radici lontane ma parla un linguaggio (anche per immagini: la moglie Emine, velata) che i turchi sentono vicina. L’apparente mancanza di diplomazia del presidente (la rottura con Israele a cui ha detto «voi sapete molto bene come uccidere», quella con la Russia, e le relative ricuciture all’insegna dell’ambiguità, la stessa che gli viene rimproverata rispetto al Califfato) che spesso fa storcere il naso alle cancellerie straniere in patria viene considerata invece un elemento di forza. Da parte di un leader che dice quello che pensa e che non ha paura di nessuno. Nella costruzione della gloria interclassista di Erdogan, la sua biografia rappresenta un fattore importante. E’ stato calciatore in gioventù, è super-tifoso del Fenerbahce, da sindaco di Istanbul dal 1994 fece lo sceriffo contro i corrotti, da militante islamico fu condannato a 4 mesi di prigione per incitamento all’odio religioso recitando pubblicamente questo brano: «Le moschee sono le nostre caserme, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati».

Ma non c’è integralismo, perché rischierebbe di pregiudicare l’estremo pragmatismo, nello stile freddo e insieme impulsivo del personaggio che in 13 anni ha fatto triplicare il reddito pro-capite (ma i cedimenti economici generali non stanno risparmiando adesso neppure la Turchia e la corruzione ha cominciato a riaffacciarsi) nel suo Paese. Piace agli imprenditori perché è un grande venditore all’estero del suo Paese e delle sue aziende e non ha paraocchi di tipo economico. E’ popolare perché comunica quelle caratteristiche di forza e carisma necessarie per governare una società musulmana (ma anche non musulmana).

FASE NUOVA Forte del suo consenso, Erdogan ha costruito nel tempo gli argini che hanno retto di fronte al golpe. Una polizia fedele e fortemente militarizzata. Una massa di sostenitori del suo partito (Akp) che si è attivata rapidamente. Servizi segreti leali e anche l’esercito ha per lo più retto nel suo vincolo di lealtà. Infatti i soldati non hanno sparato sulla folla. E ora questo leader democratico-autoritario sembra uscire ancora più forte - nonostante le difficoltà internazionali persistenti, l’aver portato il terrorismo dell’Isis nel Paese aver ricominciato la guerra con i curdi del Pkk, essere continuamente criticato per le sue smanie accentratrici - dalle ultime vicende. Ha una narrazione da rilanciare («Io salvato dal mio popolo»), una propaganda su cui fare leva, delle immagini fortissime e anche dei martiri da poter spendere presso i connazionali e presso l’opinione pubblica mondiale, che comunque non lo ama. Non a caso, Erdogan ha definito «dono di Dio» il golpe subìto e capovolto. A tremare adesso sono gli altri. 

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