Lo aveva annunciato nella sua news letter elettorale e, dopo la clamorosa vittoria, ribadito nei comizi e nelle interviste a seguire, rendendo più netto il suo pensiero: «France la premiere» è dunque il vero grido di battaglia di Emmanuel Macron, mai pronunciato chiaramente (a differenza dell’«America first» di Trump) ma da sempre perseguito con convinzione allo scopo di restituire alla Francia il ruolo di potenza europea che nelle due precedenti presidenze si era opacizzato. In primo luogo per rinvigorire il disegno imperiale africano, come dimostra il suo rinnovato attivismo in Medio Oriente e nell’Africa Centrale. In secondo luogo nei confronti della Germania, nel solco di quello storico rapporto di odio-amore che da due secoli tiene insieme e divide il polmone culturale europeo (la Francia appunto) e il cuore economico del Vecchio Continente (la Germania naturalmente). Sicché, con la mano destra si compete sui mercati senza esclusione di colpi e con la sinistra si collabora sul piano militare. A farne le spese, come è ormai evidente a tutti, in entrambi i casi è soprattutto l’Italia, di cui sin dall’Ottocento i due Paesi si adoperano per prolungare un assedio che lentamente ci spoglia dei nostri presidi esterni e delle nostre eccellenze industriali. Ma c’è un terzo compito che gli elettori francesi hanno affidato a Macron: combattere la disoccupazione e ricreare la domanda interna per far fronte a una situazione economica che si aggrava anche a causa della stentatissima ripresa.
Per riuscire in ciò, l’inquilino del Palais de l’Élysée ha deciso di giocare in solitaria la pericolosa mossa del cavallo: sul piano interno muove l’alfiere della liberalizzazione del mercato del lavoro, sfidando in campo aperto l’opposizione guidata dai Melanchon, dai Montebourg e dalle Le Pen in un percorso che ha visto già capitolare Hollande. Oltre i confini muove il cavallo del protezionismo contestando le leggi e le pratiche europee, quelle stesse che i suoi predecessori avevano avallato condividendo i limiti imposti dalla stolida tecnocrazia di Bruxelles dentro la quale, come è noto, si respirano ampie boccate di ossigeno francese. Ebbene, queste leggi impongono non solo la libera circolazione dei lavoratori tra tutti gli Stati membri, ma consentono agli imprenditori di pagare i lavoratori immigrati senza rispettare i contratti vigenti nella nazione ospitante.
Da sempre il sindacato contesta queste pratiche, denunciando senza successo le situazioni più esasperate. E tuttavia ciò che più sconcerta è che per effetto di regole europee ciò che nasceva da un confronto tra capitale e lavoro ora è imposto dalla direttive di un’Unione che sembra aver dimenticato la lezione di uno dei padri fondatori: quel Jacques Delors che scrisse appunto il piano che porta il suo nome, nel quale si invoca un’Europa sociale alla quale però finora nessuno si è mai dedicato con convinzione autentica.
Tournée nell’Est/ Il fai-da-te di Macron sul mercato del lavoro
di Giulio Sapelli
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Giovedì 24 Agosto 2017, 00:16
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