La favola globale che premia cuore coraggio e tecnica

di Marina Valensise
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Mercoledì 11 Luglio 2018, 00:05
Adesso che l’incubo è finito, lo confesso, anche io ho pregato per la salvezza dei ragazzini thailandesi rimasti prigionieri nella grotta di Tham Lang.

Una preghiera perché le piogge monsoniche fossero clementi, perché i soccorritori riuscissero a far presto, a estrarli tutti sani e salvi dal buio e dal fango. E adesso che anche l’allenatore dei Cinghialotti tailandesi è uscito fuori da quella caverna melmosa, seguendo i sommozzatori nel labirinto, commuove l’idea che il mondo intero per una volta si sia sentito unito, che abbia fatto fronte comune intorno ai dodici calciatori in erba, rimasti per venti giorni intrappolati nell’abisso. È una sensazione inedita e preziosa perché rara. Penste, da Bangkok a Santa Maria di Leuca, da Tel Aviv a Stoccolma, da Città del Capo a Mosca, una rete di solidarietà planetaria ha mobilitato per giorni intero l’energia del planeta. Gli inglesi hanno localizzato il gruppo di dispersi. Gli israeliani hanno fornito le ricetrasmittenti che hanno permesso di comunicare con loro. Dall’Australia è arrivato il medico anestesista esperto in immersioni che ha messo a disposizione la sua tecnica di salvataggi estremi. E persino noi italiani per qualche giorno abbiamo rinunciato al nostro sport nazionale, il cinismo irridente, effetto di un complesso di inferiorità e di superiorità che ci spinge a farci beffe del prossimo, specie se in difficoltà e gettarla a ridere.

È vero che in rete non sono mancati commenti deliranti come quello che augurava al giovane allenatore tailandese di non uscire vivo dalla grotta, per evitare di venire linciato dalle famiglie dei piccoli esploratori sepolti vivi per la sua bravata. Ma a parte qualche eccessi, a prevalere è stato un coro planetario di solidarietà. E in momento come quello attuale dove la divisione domina incontrastata, dove non c’è scenario che non fomenti il conflitto, l’antagonismo e l’avversione, conforta pensare che il mondo intero, da ogni latitudini, si sia ritrovato unito in un obiettivo comune, vegliare, sperare, salvare i ragazzini tailandesi. Per questo ora che l’incubo è finito, ora che gli eroici soccorritori del Thai Navy Seals sono riusciti a estrarre, vivi, anche l’ultimo gruppo di naufraghi dalla melma fangosa, tiriamo tutti un sospiro di sollievo. Ce l’hanno fatta vuol dire ce l’abbiamo fatta. E un senso di liberazione e di allegria invade i nostri cuori. È vero, per molti di noi italiani, che hanno vissuto in diretta il dramma di Alfredino, il bambino caduto in un pozzo alle porte di Roma che per giorni e giorni nell’estate 1981 tenne l’Italia inchiodata alla tv e col fiato sospeso, la vicenda dei ragazzini rimasti prigionieri nella grotta di Tham Lang e soccorsi da uno sforzo internazionale sotto l’occhio delle telecamere di tutto il mondo, segna la redenzione di Vermicino. La catarsi dopo anni di buio, di sgomento, di impotenza.

Inoltre, per noi occidentali, l’avventura dei Cinghialotti tailandesi segna la consacrazione di una virtù orientale che sta prendendo piede anche da noi, se è vero che i ragazzini sono riusciti a sopravvivere per venti giorni al buio di una caverna piena di fango grazie alla meditazione, pratica che il loro allenatore venticinquenne aveva imparato negli anni di apprendistato come monaco buddista.
E poi, a tutti noi che rincorriamo col Cicatrene in mano i nostri figli mentre giocano a nascondino, per evitare il dolore della sbucciatura o l’infezione da graffio, l’avventura tailandese ci ricorda che non c’è crescita senza esperienza, non c’è maturità senza dolore, e quella la deprivazione sensoriale, come la chiamano gli psicologi, effetto dell’iper-accudimento contemporaneo è non solo una colpa grave dei genitori di oggi, ma la causa prima del fallimento pedagogico di cui sono vittima i pargoli di ultima generazione.
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