La mossa del Sultano risposta alle trappole del Medio Oriente

di Alessandro Orsini
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Mercoledì 20 Luglio 2016, 00:05
Per giudicare, senza pregiudizi, la reazione di Erdogan contro i golpisti, occorre sapere che cos’è un colpo di Stato e che cos’è il Medio Oriente.
I colpi di Stato possono essere incruenti oppure cruenti. Quando non c’è spargimento di sangue, i colpi di Stato non distruggono la pace sociale e possono essere puniti con dosi massicce di magnanimità. Quando, invece, i golpisti sparano sui civili, sulla polizia e si dirigono verso il palazzo presidenziale per uccidere il capo di Stato in vestaglia, ha inizio una fase di guerra civile. Anche se i golpisti vengono sconfitti, questo non significa che la vita del capo di Stato sia al sicuro. Al contrario. Proprio nelle settimane successive al golpe fallito, sono più alti i rischi di un attentato contro di lui, per stroncare la sua reazione sul nascere, e per non rinunciare al sogno di abbatterlo, approfittando di una fase ancora concitata. 

All’interno di una simile dinamica, la preoccupazione principale di chi ha subito la violenza dei golpisti non è quella di dare ascolto agli appelli umanitari della comunità internazionale, ma quella di salvare la vita propria e dei propri cari. È comprensibile. Dal momento che non esiste bene più grande della vita, le libertà liberali assumono un’importanza secondaria, quando ha inizio una guerra civile. E così i sopravvissuti alla furia dei golpisti danno inizio a una serie di violenze. Non per vendetta, come molti credono, ma per istinto di sopravvivenza. Non vogliono vendicarsi. Vogliono liberarsi della paura di essere uccisi da un nuovo golpe. Il motto di ogni guerra civile è: “Mors tua, vita mea”. Questo è ciò che accade, tipicamente. A meno che il capo di Stato non fermi i suoi uomini con una serie di ordini precisi. È ciò che sta accadendo in Turchia, dove Erdogan, anziché lasciare che l’istinto di sopravvivenza faccia piazza pulita, ha proibito ai suoi seguaci le violenze su larga scala, e ha affermato che, se il Parlamento lo richiederà, si renderà disponibile a firmare una legge per la reintroduzione della pena di morte.
 
Nel frattempo, ha iniziato a epurare professori e magistrati. È una decisione grave, se posta a confronto con la normalità delle nostre vite nelle democrazie liberali, ma è proprio questo l’errore che dobbiamo evitare, se vogliamo giudicare in modo imparziale il comportamento di Erdogan. Non dobbiamo chiedere a Erdogan di mettersi al posto nostro; dobbiamo metterci noi al posto di Erdogan, giacché, sotto il profilo della sicurezza nazionale, la Turchia non si trova in Europa occidentale, bensì in Medio Oriente. 
 
E qui giungiamo al passaggio decisivo per liberarci dei nostri pregiudizi. Che cos’è il Medio Oriente? Sotto il profilo politico, è un “rettilario” ovvero una grande teca di vetro, piena di serpenti. Tolto l’Egitto, Cipro e l’Autorità nazionale palestinese, il Medio Oriente si compone di quattordici Stati, ognuno dei quali è “serpente” nei confronti dell’altro. Tutte le volte che scoppia una rivolta all’interno di un Paese mediorientale, gli Stati nemici si precipitano nel conflitto per alimentarlo dall’esterno. È esattamente ciò che è accaduto alla Siria. Scoppiata la rivolta popolare nel marzo 2011, Qatar, Arabia Saudita e Turchia hanno iniziato a finanziare, massicciamente, i gruppi che cercavano di abbattere Bassar al Assad. Questo spiega come mai quel conflitto si sia protratto così a lungo. E spiega anche come mai i governanti degli Stati mediorientali, a differenza di quelli occidentali, siano inclini a utilizzare la violenza di Stato in modo così spropositato, sin dai primi accenni di proteste popolari. Dal momento che temono l’intervento degli Stati vicini in favore dei rivoltosi, cercano di chiudere subito la partita. Al contrario, quando un paese membro dell’Unione Europea entra in crisi, com’è accaduto alla Grecia, gli altri Stati si coalizzano per inviare aiuti, al fine di impedire il crollo.

In Medio Oriente, vale il principio: «Se inciampi, ti sbrano». Non appena un governante vacilla, per un problema di ordine interno, gli altri governanti accorrono a dare la spinta finale. È ciò che l’Iran fa con il Bahrein e con lo Yemen, ad esempio. Ed è ciò che l’Arabia Saudita fa con la Siria. I casi si potrebbero moltiplicare. 
Se noi avremo la capacità di calarci nel clima politico e psicologico in cui i golpisti violenti hanno precipitato la Turchia; e se sapremo vedere la “teca” che contiene il Medio Oriente; la reazione di Erdogan ci apparirà moderata. E, magari, eviteremo di commettere quell’errore, così frequente in noi occidentali, di condannare tutto ciò che è diverso da noi, senza avere condotto il minimo sforzo per comprenderlo. 
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