La strategia dei raid: l’unica strada per battere il Califfato

di Carlo Jean
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Sabato 21 Novembre 2015, 13:37 - Ultimo aggiornamento: 16 Novembre, 23:50
L’Italia agisce già in Iraq con 530 soldati, in gran parte con compiti addestrativi dei peshmerga curdi e delle forze governative. 140 avieri sono basati in Kuwait, con 4 Tornado per missioni di ricognizione, 2 droni disarmati e un aereo rifornitore. L’operazione a cui partecipiamo nel quadro di una coalizione di circa 60 Stati, guidata dagli Usa, si chiama Inherent Resolve.



Il dibattito sull’impegno militare nel nostro Paese è sempre stato vivace e molto ideologico, soprattutto era stato annunciato che il governo studiava una partecipazione più attiva, in pratica l’autorizzazione d’impiegare i Tornado anche nei bombardamenti dei “tagliagola” dell’Isis. Le polemiche non si erano sopite neppure dopo la dichiarazione del Ministro della Difesa che una decisione al riguardo sarebbe stata sottoposta al Parlamento. La cosa più buffa è stata che il dibattito aveva riguardato il dubbio amletico se si trattasse di guerra o no, come se la partecipazione alla coalizione anti-Isis non riguardasse già l’uso della forza. Pochi hanno tenuto conto del fatto che la Costituzione non risponde alla realtà dei tempi. Infatti, prevede solo i casi di pace assoluta e di guerra totale. Non considera invece la crescente zona “grigia” esistente tra le due nella reale conflittualità attuale.





Chi avrebbe dovuto presentare all’Isis la nostra dichiarazione di guerra? Non si sarebbe rischiato di riconoscere ai “tagliagola” dell’Isis la qualifica di legittimi combattenti? O di riconoscerlo come Stato? Era una cosa tanto più imbarazzante, in quanto il nostro governo giustamente rivendicava il comando di eventuali operazioni internazionali in Libia contro gli scafisti. La questione si è riproposta nella riunione del G-20 in Turchia, in cui Stati Uniti e Russia hanno discusso come porre fine al conflitto che insanguina la Siria e come agire contro l’Isis, dopo l’abbattimento dell’Airbus russo e gli attentati di Parigi. In questi ultimi, il terrorismo ha registrato un salto di qualità. Non si è trattato dell’azione di “lupi solitari”, ma di un “branco di lupi”, bene organizzati e coordinati fra loro. Si è trattato di un’azione militare vera e propria, forse pianificata in Siria. Nel G-20, Renzi ha garantito la solidarietà dell’Italia, che dà per scontata, anche se taluni paesi hanno dubbi al riguardo.



Partecipiamo alla coalizione anti-Isis da oltre un anno, ma non effettuiamo bombardamenti, come ci hanno chiesto i governi iracheno e americano. Il nostro primo ministro si è giustificato, affermando che non sono stati definiti gli obiettivi politici da raggiungere - cioè cosa si vuole fare una volta che l’Isis sia stato distrutto - né la strategia da adottare e che i soli bombardamenti non sono sufficienti a distruggere il Califfato. A parer mio, gli obiettivi sono chiari, anche se potranno essere definiti nel dettaglio solo dopo una vittoria. Nelle guerre è stato sempre così. I piani non sopravvivono alle prime cannonate. Per l’Iraq sono comunque chiari. L’unità dello Stato verrà mantenuta. Per la Siria, sarà forse necessario adottare una soluzione simile a quella prevista da Dayton per la Bosnia-Erzegovina. Dipenderà dai rapporti che si determineranno alla fine dei combattimenti e dall’entità degli effettivi che saranno necessari per il controllo del territorio e per il consolidamento delle istituzioni contro i residui nuclei di guerriglieri.



Anche la strategia seguita dalla coalizione mi sembra chiara, anche se è criticabile perché non considera l’impiego di forze terrestri. È una strategia di logoramento, basata sulla potenza aerea occidentale e sull’azione di forze terrestri locali, in particolare di quelle dei curdi, iracheni e siriani. In un primo tempo è stata volta al contenimento dell’Isis e ha avuto successo. In futuro, lo sarà alla sua distruzione e alla riconquista dei suoi territori. A ciò si aggiunge il contrasto alle fonti di finanziamento del Califfato: il contrabbando di petrolio e quello di opere d’arte. Sembra che i finanziamenti esterni dalle dinastie del Golfo non superino il 5% dei consistenti fabbisogni finanziari dell’Isis. È perciò obbligato ad aumentare le estorsioni e le tasse, erodendo il consenso dei circa 8 milioni di abitanti del territorio che ha conquistato. L’aumento delle perdite obbliga il Califfato ad attrarre reclute, pagandole in misura sempre maggiore.



Ormai l’Isis è sulla difensiva. L’ondata terroristica all’estero è una conseguenza delle “botte” che sta subendo in Siria e in Iraq. Con essa cerca di mantenere un prestigio che non può più basarsi solo sulla sua efficiente comunicazione. Qualora Washington e Mosca riescano a trovare un accordo fra i loro divergenti interessi in Siria e fra quelli dei loro alleati - turchi, iraniani, sauditi, curdi, ecc. - per l’Isis sarà la fine. La sua sconfitta segnerà un crollo dell’attrazione che esercita su molti musulmani, con la sua escatologia millenaristica e apocalittica. Crolleranno anche gli “emirati”, costituiti dai gruppi jihadisti che hanno giurato obbedienza al Califfo, in particolare quelli in Libia e nel Sinai, che più interessano l’Italia. La partecipazione italiana ai combattimenti - non solo alla logistica - per distruggere l’Isis è quindi importante.



È l’unico modo per garantire al nostro Paese la tutela dei suoi interessi in una regione tanto critica per il suo futuro.
Verosimilmente, saranno sufficienti solo forze aeree - magari una quindicina di cacciabombardieri - e qualche addestratore in più. L’entità del nostro impegno dipenderà però molto da cosa faranno i nostri alleati. Sicuramente non potremo definire gli obiettivi e la strategia. Bisognerà però evitare di chiedere “caveat” e “compromessi al ribasso”, sull’impiego delle nostre forze. Se cederemo al vezzo nazionale di “cercare il pelo nell’uovo”, vanificheremo i vantaggi di una nostra partecipazione ad una coalizione che modificherà l’attuale geopolitica del mondo arabo.