Strategia dell’Italia/I nostri anticorpi alla spirale jihad

di Fabio Nicolucci
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Sabato 19 Agosto 2017, 00:05
Una domanda si aggira per l’Europa: perché l’Italia non è stata sinora toccata dall’offensiva terroristica che dal 2015 sta di nuovo flagellando il continente ? Dopo i fatti di Barcellona, che allargano lo spettro dei Paesi colpiti – sinora nordeuropei – ad un Paese mediterraneo del sud, tale domanda si pone con rinnovata forza. E non solo per la comune matrice mediterranea. 

Ma perché se la pongono oramai non solo gli analisti ma anche il pubblico più largo. Ed è ancor più amplificata dalla natura finora opaca del fenomeno terroristico che la genera. La difficoltà a definire contorni e natura del terrorismo in atto è infatti di per sé motivo d’inquietudine. Perché al contrario delle precedenti tre ondate terroristiche che dagli anni ’80 del secolo scorso si sono susseguite in occidente, questa quarta attualmente in corso ha una natura assai diversa. Mentre prima il fenomeno terroristico di Al-Qaeda era in qualche modo a noi più familiare, perché replicava su scala globale un fenomeno che molti paesi avevano comunque conosciuto su base nazionale negli anni settanta e ottanta, l’Isis e il suo franchising è invece una mutazione inedita.Potremmo dire che la sua natura è frattale, e quindi particolarmente sfuggente nei contorni ancorché non priva di una sua simmetria.

Una natura figlia dei nostri caotici tempi slabbrati, forse da essi generata al di là dell’intenzione politica e del progetto indubbiamente presenti, dove l’interdipendenza dei flussi tende a sfociare in anarchia politica e frammentazione identitaria. Questo è l’ “Isis” oggi. Per questo non ha molto senso valutare le sue fortune conteggiando in modo simmetrico solo i morti o il numero di attentati o il numero di chilometri quadrati che governa, ed è invece imperativo prenderne assolutamente sul serio la sua pericolosità innanzitutto politica, anche se asimmetrica in senso militare. Perché è ovvio, e lo dimostra la pronta ed efficace reazione della polizia catalana, che grandi passi in avanti nel nostro continente sono stati fatti sia nella reazione che nella prevenzione. Ma ciò non sarà risolutivo. Perché continua a sfuggire la natura multiforme e composita del fenomeno, sfuggente per natura ad una pronta lettura in quanto frutto di una miscela instabile, i cui componenti sono uguali per tutti ma si miscelano in modo diverso da Paese a Paese. 


<HS9>Sempre più cruciale diventa un’analisi differenziata, in quadro però unitario e a dimensione globale. Se infatti al momento gli analisti si dividono tra coloro che ritengono il fenomeno terroristico in Europa - altra cosa sono i territori siro-iracheni e il quadrante asiatico - frutto di una “radicalizzazione dell’Islam” e chi invece lo ritiene una “islamizzazione della violenza”, appare sempre più lampante che ambedue le dinamiche sono compresenti. Nella francofonia è probabilmente preminente la prima, anche per la tradizione laicista che lì fa da reagente a quelle crisi identitarie che sfociano in radicalizzazione. Mentre nel resto d’Europa è probabilmente preminente la seconda. Poi ogni paese ha un suo particolare rapporto con l’Islam e il radicalismo sunnita che si fa jihadista. La Spagna ha avuto un rapporto conflittuale da Stato a Stato con gli arabi, che alla fine ha cacciato dal proprio territorio, e se si guardano le mappe dell’Isis l’oramai mitico territorio di al-Andalus è segnato in nero come da riconquistare. Diverso è il rapporto che gli italiani, non esistendo ancora l’Italia, hanno avuto con gli arabi in Sicilia, che è stato di popolo a popolo. Qui non esistono capitoli storici in sospeso da poter strumentalizzare. Ma anche altri fattori hanno fatto sinora dell’Italia un capitolo a parte, al netto dell’efficacia degli apparati di prevenzione e di repressione, oramai su standard elevati in tutta Europa. Se il jihadismo globale è, come è, soprattutto un progetto politico, non può non tener conto che toccare l’Italia significa violare la Cristianità. Una massa d’urto che oltrepassa per numero di fedeli il pur diffuso Islam. Così come la stessa debole tradizione statuale italiana in questo contesto si rovescia da debolezza in punto di forza, perché la nostra immagine nazionale non è conflittuale in nessuna parte del globo e soprattutto in medioriente. Dove siamo apprezzati dalle popolazioni arabe - a cui si rivolgono i jihadisti, assai attenti a non contrariarle inutilmente - anche per il nostro “soft power”, magari stereotipato in calcio, canzonette e umanità ma nondimeno lì assai apprezzato. Come testimonia la popolarità dei nostri contingenti in operazioni di Peacekeeping Onu. Insomma, non è detto che le cose rimangano così, perché molto poco dipende praticamente da noi. Ma al momento siamo centrali nell’identità europea ma del tutto periferici nel sommovimento d’odio che la sta lambendo. Si tratta di una asimmetria che dobbiamo proteggere e coltivare, non solo per la nostra particolare sicurezza ma anche come contributo per la soluzione collettiva – al momento assai lontana – di questo epocale e tragico fenomeno. 

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