Giornalisti, 110 uccisi nel 2015: solo 1 su 3 in zone di guerra

Giornalisti, 110 uccisi nel 2015: solo 1 su 3 in zone di guerra
di Ida Artiaco
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Martedì 29 Dicembre 2015, 15:45 - Ultimo aggiornamento: 30 Dicembre, 12:47
Il 2015 è stato un anno segnato dal sangue e dalla censura per i cronisti nel mondo: 110 sono stati uccisi, in un numero crescente rispetto agli anni scorsi, e non in zone teatro di guerre ma in Paesi formalmente privi di conflitti. La denuncia arriva direttamente dall’associazione Reporters senza frontiere nell’ultimo rapporto pubblicato con i dati relativi all’anno che sta terminare.

Sono sempre più, dunque, i giornalisti che hanno perso la vita a causa delle inchieste scomode condotte spesso in casa, operando in paesi dove non ci sono aperti conflitti ma la criminalità che teme la stampa. Un dato questo in controtendenza rispetto a quelli del 2014, quando due terzi delle vittime della libera informazione si trovavano in aree sensibili. Dei 110 uccisi nel 2015, 67 sono stati eliminati mentre svolgevano la loro professione, mentre altri 43 sono morti in circostanze ancora da chiarire. Si contano anche 27 reporter non professionisti, i cosiddetti “citizen journalists”. e sette tra cameramen, fonici e tecnici.

È l’Iraq il Paese più pericoloso per i giornalisti, seguito dalla Siria. A sorpresa, sul gradino più basso di questo triste podio c’è la Francia, complici le 8 vittime uccise nell’attacco terroristico al settimanale satirico Charlie Hebdo lo scorso gennaio. Ancora, ci sono Yemen, Sud Sudan, India e Messico, uno dei territori più pericolosi in assoluto, anche per i civili, a causa della guerra in atto tra le diverse squadre di narcotrafficanti che si contendono intere aree dello Stato. Reporters senza frontiere ha chiesto che sia nominato “un rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu per proteggere i cronisti nel mondo”.

Alto è anche il numero di giornalisti che sono stati rapiti e tenuti in ostaggio: ne sono 54, e altri 154 sono quelli in prigione per aver svolto il proprio lavoro. Tra di loro, la maggior parte si trova in Cina, e poi in Egitto, Iraq, Eritrea e Turchia, dove il presidente Erdogan, che poco tollera la libertà di stampa, ha fatto chiudere numerose testate. 
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