Tra i migranti di Thiaroye-sur-mer: da qui si sale sui barconi per l'Europa

Tra i migranti di Thiaroye-sur-mer: da qui si sale sui barconi per l'Europa
di Nicola Zamperini
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Sabato 16 Gennaio 2016, 19:52 - Ultimo aggiornamento: 21 Gennaio, 21:46

«Partire è una questione di sopravvivenza. Qui guadagni 8 euro al giorno e non ce la fai a campare. Senza un buon lavoro i ragazzi partiranno sempre». Bintoo Niang ha 59 anni ed è seduta accanto ad altre quattro madri di Thiaroye-sur-mer, villaggio-periferia di 40mila abitanti della città di Pikine, a est di Dakar. Madri che hanno perso i propri figli a causa della migrazione verso l’Europa. Chi è scomparso per mare, chi nel lungo viaggio, chi è svanito nel deserto del Mali o della Libia, chi non sa nemmeno quando, come e dove il proprio figlio è morto. E loro, le madri, aspettano, non celebrano il funerale e non lo celebreranno mai.


«Certo che lo aspetto – ci dice Marietoy Niang, 60 anni – come madre ho il dovere di aspettare mio figlio. Anche se so che non tornerà mai più». Le parole di queste donne, nella Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, chiariscono perché il Senegal conta oggi 400mila emigrati, di cui 94mila residenti in Italia, su una popolazione complessiva di 12 milioni milioni e mezzo di persone.

Nelle viuzze di sabbia sciamano bambini di ogni età, i vecchi sono seduti e osservano l’andirivieni di ragazzini, le capre brucano inesistenti fili d’erba, i pescatori rammendano le reti all’ombra di un albero e una mucca sembra indifferente a tutto. Siamo in uno dei tanti villaggi che compongono la circoscrizione di Thiaroye-sur-mer.

Una comunità stretta, in cui tutti sono più o meno imparentati ed esistono ancora gli anziani del villaggio. A Thiaroye si arriva in macchina, attraverso una delle grandi tangenziali che uniscono Dakar a Pikine, quest’ultima è la seconda città più popolosa del Senegal. In realtà visto dall’alto il tutto è un unico grande agglomerato urbano.

Da un certo punto in poi la tangenziale finisce, le macchine si infilano in strade sterrate piene di buche, e infine si prosegue a piedi, per il semplice fatto che un’automobile non riuscirebbe a passare. Le case sono tutte di un solo piano, una attaccata all’altra. Ogni tanto una fontanella dove una donna sciacqua le pentole, lava i piatti. Si sentono i versi del bestiame, mucche, capre, galline.

L’oceano Atlantico è vicino, si ascolta il suono della risacca che prefigura il destino di tanti, il passato e il presente, il lavoro di una vita e la possibilità futura di emigrare in Europa. Basta fare pochi metri e si arriva su una spiaggia. Le barche dei pescatori, lunghe piroghe colorate, sono affiancate l’una all’altra, appena rientrate da una battuta di pesca. Dal bagnasciuga, senza particolari difficoltà, si può scorgere l’Ile de Gorée. Dal 1978 dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco e per secoli luogo di partenza di milioni di africani ridotti in schiavitù.

Di notte, sulla spiaggia e su altre spiagge simili lungo la costa, arrivano battelli un po’ più grandi delle piroghe da pesca. I passeur, i manovali dei trafficanti di esseri umani, raccolgono le persone e le imbarcano. Un esodo continuo, inesorabile. Direzione le coste spagnole, le Canarie, spesso il Marocco da cui tentare, con altri mezzi, di arrivare in Europa.

«Siamo partiti alle tre del mattino, a bordo di un battello - racconta Mademba Mar, 42 anni. Per me il viaggio è stato tranquillo: sono un pescatore, io non ho problemi in mare. Tanti, degli 85 che erano a bordo, vomitavano e molti si sono ammalati. Abbiamo navigato nove giorni per arrivare in Spagna. Purtroppo poi ci hanno rimpatriato».

La scelta della migrazione gravita sull’intera famiglia, la comunità investe e paga il viaggio. Ciascuno mette una quota. «Mio figlio aveva 20 anni, ricorda Bintoo Niang. Il suo viaggio è stato deciso sulla base di una scelta familiare. Tutti abbiamo contribuito economicamente per farlo arrivare in Europa, qui non riusciva a guadagnare abbastanza per mandare avanti la famiglia. Se non c’è da mangiare e non ci sono soldi devi partire, dall’altra parte è più facile riuscire a trovare un lavoro, a vivere bene».

Thiaroye è uno dei villaggi in cui il VIS, Volontariato internazionale per lo sviluppo, e Missioni Don Bosco hanno fatto partire la campagna Stop-Tratta che prevede progetti di sviluppo orientati a gruppi a rischio di traffico di esseri umani o migrazione irregolare. La formazione professionale è uno degli elementi di base dell’iniziativa rivolta a 5 paesi dell’Africa sub-sahariana: Senegal, Nigeria, Etiopia, Ghana e Costa d’Avorio.

Khamal ha 30 anni e ci racconta dei suoi 2 tentativi per arrivare in Spagna. La prima vota una burrasca ha fermato la barca sulla quale viaggiava con altre 80 persone. Soffiavano venti molto forti, la barca non governava più con onde alte 6 metri, infine la «Marina militare del Marocco ci ha salvato e portato sulla terraferma. Per quel viaggio avevo pagato 300 euro, non è tanto, eravamo in molti e il prezzo era piuttosto basso».

Dopo un mese e mezzo in Marocco lo rimpatriano. Khamal insiste e tenta una seconda volta. Sempre via mare. Stavolta il viaggio si ferma sulle coste spagnole, ma non della Spegna continentale. «Dopo 9 giorni nell’oceano siamo arrivati a Tenerife, alle Canarie, e anche da lì ci hanno rimpatriato».

Per chi vive a Thiaroye la migrazione è una necessità economica ma anche un fatto di prestigio personale, di riconoscimento sociale. L’altra parte, come Bintoo ha chiamato l’Europa, o l’Eldorado, come abbiamo spesso sentito definire il nostro continente, una volta raggiunto determinano uno status che va esibito. E chi ce l’ha fatta spedisce a casa foto in posa, artefatte, davanti a macchine di lusso, e racconta a chi è rimasto i presunti successi del progetto migratorio. Non potrebbe essere altrimenti. Le famiglie si sono indebitate, e anche se le cose in Europa non vanno bene, stare lontani vuol dire non pesare più sullo scarno bilancio familiare.

Marietoy Niang ce l’ha confermato: «Il viaggio non è solo un fatto lavorativo, per i ragazzi è anche la realizzazione di un sogno». Lo stesso Khamal ha confessato che tenterà una terza volta. Un terzo viaggio via mare oppure attraverso deserto del Mali, oggi ancora più pericoloso perché infestato dagli jihadisti. «Ci proverò di sicuro, anzi ci proverò per tutta la vita finché non ci riesco».

I pericoli che si corrono, non solo nel Mediterraneo, ma anche nell’Oceano Atlantico non scoraggiano la migrazione, troppo alta è la posta in palio. E l’indagine realizzata dal Vis, lo scorso autunno, su un campione di 250 potenziali migranti in Senegal, ha rivelato che meno della metà degli intervistati (il 48%) pensa che la morte sia un rischio concreto. Al secondo posto il carcere con il 25% e infine il rimpatrio forzato solo il 10%.

Per questo il Vis e Missioni Don Bosco attraverso Stop-Tratta si sono posti anche il problema della sensibilizzazione dei migranti sui pericoli del viaggio. Attraverso i social network verranno prodotti contenuti nelle diverse lingue locali, compresi alcuni dialetti, per favorire una scelta consapevole. «Non bisogna fermarsi di fronte a un cimitero di sabbia e a un cimitero di acqua - ha chiarito Giampietro Pettenon, Presidente di Missioni Don Bosco - per questo, grazie alle comunità salesiane radicate nei territori di partenza, intendiamo raggiungere migliaia di ragazzi e ragazze e parlare con loro. Informarli sulle reali ed effettive possibilità di successo del progetto migratorio in Europa».

«Se avessi un lavoro qui non ci penserei proprio a muovermi».
Con questa frase Khamal, quello del terzo tentativo, quello del “ci proverò per tutta la vita”, scandisce il suo ultimo punto di vista. La migrazione è una necessità a condizione date, ma se le condizioni cambiano il viaggio per mare e quei funerali non celebrati non saranno più l’orizzonte di un’intera generazione di ragazzi, qui a Thiaroye.

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