Se la forza delle immagini non smuove le coscienze

di Maria Latella
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Lunedì 9 Aprile 2018, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 00:55
Perché quel che succede in Siria non ci tocca? Perché non ci sono proteste davanti alle ambasciate, né petizioni, né raccolte di fondi per i bambini sopravvissuti? 

Perché non ci fermiamo trenta secondi, bastano trenta secondi, davanti alle immagini che arrivano da Douma? Trenta secondi per riaccendere le nostre coscienze.
Ci sono almeno tre buone ragioni per le quali l’interruttore delle nostre coscienze rimane in modalità “off” . Ma ce ne sono tante di piu’ per spingere sull’ “on” . E tenerlo acceso. 
Cominciamo da quelle per cui, finora molti di noi non hanno guardato le foto dei bambini siriani, hanno ascoltato distrattamente i telegiornali che di questa guerra parlano, non hanno letto le corrispondenze dalla Siria.

IL SENSO CHE SFUGGE
Il fatto è che non capiamo quel che sta succedendo. Non capiamo chi sta con chi, perchè si stanno massacrando, sappiamo che Assad è il cattivo ma non sappiamo perché perseguita il suo popolo. Ed è difficile prendere a cuore qualcosa di cui, da otto anni, ti sfugge completamente il senso.

Ogni generazione ha le sue catastrofi umanitarie, c’è stata la guerra in Vietnam, il genocidio in Ruanda, la Bosnia, il Darfour, l’Etiopia, dove milioni di persone sono state colpite dalla siccità, lo Yemen. Ma la potenza delle immagini che cinquant’anni fa convinsero gli americani dell’assurdità della guerra in Vietnam è andata man mano sbiadendo, spingendo un poco più in là la nostra indifferenza. Ad ogni decennio ci siamo ritrovati sempre meno indignati, sempre un po’ piu’ distaccati.

“Saigon execution” la foto agghiacciante del Viet cong ucciso con un colpo alla testa proiettò tutta la sua potenza nelle case e negli occhi degli americani. E l’immagine della bambina che scappava, nuda e piangente, circondata dai militari americani fece vergognare i connazionali a miglia di chilometri di distanza.

Decennio dopo decennio, altre foto si sono fatte strada nelle nostre emozioni, ma sempre più a fatica. Quando è stata l’ultima volta in cui uno scatto, un singolo scatto, vi ha inchiodato davanti a una pagina di giornale, allo schermo del vostro tv o del vostro tablet? Forse è successo tre anni fa, con Aylan, il bambino siriano annegato sulla spiaggia turca di Bodrum mentre con la famiglia sfuggiva a quella guerra di cui non vogliamo sapere. Aveva tre anni, è morto con suo fratello. Ecco, forse per un momento, tre anni fa, l’interruttore delle nostre coscienze si è riacceso. Per poi spegnersi subito, di nuovo. 

Troppe foto, troppe immagini vengono offerte in rete perché la nostra retina si lasci ormai più di tanto impressionare. Avanti un altro. E il clic dell’indifferenza stravince.
Mi sembra, questa, la seconda ragione per cui, in fondo, della Siria e della sua tragedia non ci accorgiamo più. La prima, ripeto, è perché non capiamo da che parte sono i cattivi e come mai da cattivi stanno agendo. La seconda è perché siamo sommersi da immagini. Negli anni del Vietnam ne avevamo molte ma molte di meno. Le notizie erano centellinate (andate a vedere il meraviglioso film “The Post” se nei ‘70 non eravate ancora nati) e ci sono voluti individuali gesti di coraggio, giornalisti bravi e non dipendenti dal potere, centinaia di manifestazioni e cortei prima che l’America profonda capisse e dicesse basta a una guerra che uccideva (anche) i suoi figli. Pensate quanti anni serviranno per farci dire “basta” alla guerra in Siria che, in apparenza, nemmeno ci riguarda.

Naturalmente, invece, ci riguarda eccome. Della Siria non vogliamo sapere, ma nei giorni in cui centinaia di famiglie siriane scappate dalla catastrofe, si affollavano davanti alla stazione Centrale di Milano, disposte a pagare qualsiasi somma pur di essere portate in taxi in Svizzera, ecco, in quei giorni siamo stati costretti a sapere anche non volendo. La nostra “indifferenza” si è fatta sospettosa: che ci fanno qui questi siriani? E poi: saranno siriani davvero?

La terza ragione per cui non vogliamo sapere è, appunto, il timore di dovercene occupare. Negli anni ‘70 gli studenti avevano famiglie sicure alle spalle e un futuro piu’ o meno luminoso davanti. Potevano permettersi il lusso della generosità. Le nuove generazioni che stiamo allevando, più fragili che mai, più insicure di quanto gli adolescenti siano normalmente mai stati, più che ai cortei pensano al computer della loro stanzetta. Se per caso si accorgono della tragedia in Siria, dicono la loro su Facebook e finisce lì. Quanto ai genitori, hanno vite preoccupate, a loro volta infiltrate da mille insicurezze. Le foto che arrivano da Douma? Per favore cambia canale.

L’EMPATIA FAMILIARE
Eppure. Eppure se quei genitori sapessero quanto bene farebbe, anche all’empatia familiare, allevare ragazzini capaci di emozionarsi per i loro coetanei in Siria. Se tutti noi, adulti che ne hanno viste tante, ci fermassimo per una volta trenta secondi, su certe foto. Potremmo, chissà, tornare in contatto con l’adolescente sensibile e generoso che siamo stati, tanti anni fa. Riaccendere quell’interruttore spento da tempo potrebbe soltanto farci bene.
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