Caso Regeni, il ruolo di Al Sisi/La stretta via fra i diritti e la leadership

di Alessandro Orsini
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Mercoledì 6 Aprile 2016, 00:23
In tre mosse, l’Italia ha posto l’Egitto in un angolo, rivendicando un ruolo di primo piano nel Mediterraneo. Con la prima mossa, ha ottenuto la restituzione del corpo di Giulio Regeni, destinato a sparire per sempre, come è accaduto con altri 396 ragazzi egiziani, negli ultimi otto mesi. Con la seconda mossa, ha mostrato quel corpo martoriato ai governi europei, chiarendo che le torture sono state inflitte a un loro concittadino.

Con la terza mossa, ha ottenuto la risoluzione del Parlamento europeo del 10 marzo 2016, che «condanna con forza la tortura e l’assassinio del cittadino europeo Giulio Regeni in Egitto», e chiede al Cairo di fornire alle autorità italiane tutti i documenti e le informazioni necessarie per l’inchiesta, sottolineando, con grave preoccupazione, che il caso Regeni «non è un incidente isolato». La restituzione del corpo è stata la mossa più importante, perché ha prodotto le altre, ma la terza è la più gravida di conseguenze politiche, perché pone l’Egitto in una condizione subalterna all’Italia. Tradotta nel linguaggio comune, la risoluzione del Parlamento europeo suona come segue: «Le principali potenze europee stabiliscono che l’Italia conta più dell’Egitto, che è tenuto ad adeguarsi».

Al Sisi si adeguava subito e, pochi giorni dopo la condanna, esprimeva il suo sentimento di fratellanza verso l'Italia che - ricordava - «è il primo partner commerciale dell'Egitto nell'Unione Europea». Diplomazia per diplomazia, al Sisi ha detto: «L'Italia ha ragione sul caso Regeni, ma, se io cado, gli interessi commerciali dell'Italia non sono più sicuri».

È noto che, quando un paese ottiene il massimo di ciò che può ottenere da un altro paese, ha più interessi a fare che a disfare. La regola aurea della politica, secondo cui chi guadagna, conserva, e chi perde, vuol cambiare, vale anche nella politica internazionale. E siccome abbiamo già perso molto in Libia, con la caduta di Gheddafi, il caso Regeni è diventata la sfida più difficile del governo Renzi, che deve raggiungere due obiettivi. Il primo è quello di rispondere all'indignazione morale che sta montando nel paese per il massacro di un giovane italiano, la cui storia inorgoglisce. Il secondo è quello di non favorire una nuova destabilizzazione dell'Egitto mentre l'Isis è alle porte. Molti italiani si stanno chiedendo come mai l'Europa non abbia favorito l'ascesa di un liberale al posto di al Sisi e la risposta è che i liberali, in Egitto, non ci sono. Un liberale di alto profilo è il premio Nobel Muhamed el Baradei, i cui tentativi di assumere un ruolo guida nella politica egiziana sono stati coronati da una serie impressionante di insuccessi, al punto che, il 14 agosto 2013, sconvolto dalle violenze della polizia contro i manifestanti, rassegnò le dimissioni dalla carica di vicepresidente dell'Egitto, lasciando immediatamente il paese. Queste sono state le sue parole testuali: «Non posso sopportare la responsabilità di una sola goccia di sangue davanti a Dio, e davanti alla mia coscienza di cittadino».
 
Per eleggere un liberale, occorrono i liberali, che mancano in tutti i punti vitali della società egiziana, come conferma il fatto che, il 21 agosto 2013, el Baradei fu posto sotto processo dai magistrati del Cairo, i quali lo accusarono di avere tradito gli interessi nazionali, avendo rassegnato le dimissioni per motivi di coscienza. Mentre le democrazie liberali processano i politici che violano i diritti umani; l'Egitto processa coloro che li difendono.
L'uccisione di Regeni è un orrore che non modifica il fatto che l'Europa ha due sole alternative: o il governo laico e filo-occidentale di al Sisi oppure quello islamista dei Fratelli Musulmani, guidati da Morsi, il quale, non dimentichiamolo, il 22 novembre 2012, si attribuì poteri assoluti. Quel giorno, il liberale el Baradei disse: «Morsi ha usurpato tutti i poteri e si è autonominato nuovo faraone dell'Egitto».
Il senso di colpa è uno dei pilastri della cultura occidentale, ma non è colpa nostra se in Egitto c'è una dittatura. Una democrazia liberale non nasce da un atto della volontà dei governi stranieri, ma da una serie di intricate concause storico-sociali che producono un certo tipo di interazione, tra i cittadini e i governanti, che noi chiamiamo “società aperte”.

Non si tratta di “turarsi il naso”. Si tratta di continuare a fare ciò che stiamo facendo: esercitare tutte le pressioni possibili per ottenere la verità su Regeni e migliorare la situazione dei diritti umani in Egitto, che non diventerebbe una democrazia liberale, nemmeno se al Sisi fosse rovesciato.
 
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