Quel delitto senza castigo nell’impero di zar Putin

di Sergio Canciani
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Martedì 3 Marzo 2015, 00:05
Se il piccolo Cesare del Cremlino avesse studiato il latino avrebbe potuto scrivere nel suo diario che la Russia è divisa in “partes tres”. Lo è sempre stata.



Una Russia dell’ambigua modernità che balla sullo champagne e sull’affarismo inconfessabile; quella delle periferie decrepite e spaventevoli dove uno spacciatore conta quanto la velocità del suo coltello e la differenza tra malfattore e poliziotto non esiste; poi c’è una terza Russia, quella che si perde nell’immensità della steppa e della foresta dove le luci delle metropoli non si vedono e vige solo la penombra delle “isbe” primordiali e delle rovine postsovietiche dei “kombinat” e delle ex città della scienza segreta di cui nessuno, a parte i vertici della nomenklatura, doveva conoscere l’esistenza. Un “non mondo” che corrispondeva ai due terzi del gigante sovietico, almeno fino ai tempi di Gorbaciov che ne denunciò, pagando di persona, la sclerosi e la fatale immoralità.



No, Putin non ha studiato il latino, ma ha imparato il linguaggio minaccioso e menzognero insegnato nell’alta scuola dei servizi segreti. Da uno convinto che «la fine dell’ Urss fu una delle peggiori tragedie del XX secolo» ci si può aspettare di tutto, soprattutto se il popolo invece di fischiare, applaude. I duri del Cremlino sono nostalgici ma anche pragmatici e sanno che il comunismo non si può resuscitare, è una mummia di cattivo gusto quanto quella di Lenin nel mausoleo sulla piazza Rossa.



Quindi con un gioco di specchi ha sostituito un’ideologia con un’altra, in realtà mai archiviata nemmeno da Stalin che la usava alla bisogna. La nuova dottrina si potrebbe sintetizzare in poche parole: vogliamo tornare ad essere come eravamo un tempo, belli e potenti, ammirati e temuti quanto lo furono la cavalleria imperiale e in seguito le brigate corazzate del maresciallo Zhukov. La prosopopea fortemente antioccidentalista dei putiniani non si basa sul nulla, bensì viaggia sui binari del gas e del petrolio che alimentano la sete energetica degli europei e la crescente ingordigia delle tigri cinesi.



La nuova opposizione, sostanzialmente concentrata a Mosca e a San Pietroburgo, non è caduta nella trappola neo imperialista schierandosi - in nome dei diritti umani - contro la repressione in Cecenia e a favore delle aspirazioni dell’Ucraina di scegliere senza ingerenze il proprio futuro. Il che per la terza Russia, quella più profonda ed arretrata, equivale a un tradimento. Il Cremlino lo sa e le sue dominanti antenne della propaganda hanno iscritto tutti i dissidenti nella lista nera dei nemici della patria. «Putin mi vuole morto», avrebbe denunciato poche settimane fa Boris Nemtsov che apparteneva alla prima Russia, quella delle idee liberali, delle maniere eleganti e dell’inglese fluente. Fatto fuori da presunti sicari del piccolo zar, ma perché? Nemtsov, 55 anni, fisico di formazione, era il più pallido degli oppositori.



Ragazzo prodigio ai tempi di Eltsin, di cui fu vice primo ministro, aveva in qualche modo condiviso il destino di Gorbaciov senza averne peraltro né le responsabilità né la stazza di leader. Ricevuto anche lui con mille onori (oltre che con supponente curiosità) nei salotti del liberalismo occidentale, ma totalmente ignorato in patria. Uno coccolato dai neocon americani e dai conservatori britannici non poteva conquistare i cuori dei russi, il cui palpito è chiuso tra il disprezzo per la “immoralità” dell’occidente e il fiato minaccioso dei vicini d’oriente.



Nemtsov contestava il neoimperialismo di Putin. Anni fa aveva raccolto un milione di firme contro la guerra in Cecenia. Un grande movimento che si era frantumato tra le macerie degli attentati dei “desperados” ceceni nel frattempo passati dal separatismo laico alla guerra santa islamica prefigurando un califfato dai Balcani al Mar Nero. Con le operazioni in Ucraina forse Putin intende spezzare questa “trasversale verde” conquistando gli avamposti della Crimea e del bacino del Don ergendosi come difensore dell’estremo bastione della cristianità, e in questo, benedetto dalla Chiesa ortodossa. La voce contraria di Nemtsov - contraria all’ annessione palese della Crimea e a quella mascherata del Donbass - era una voce nel deserto.



Il nazionalismo è l’ ultimo rifugio dei malintenzionati e coloro che non partecipano al canto intonato da Putin sono dei reietti, in odore di tradimento. Nemici del popolo, si diceva ai tempi del sovietismo imperante. Ma tutto questo è sufficiente, o necessario, per far fuori un’oppositore quasi senza seguito, mentre passeggiava di notte a pochi passi dalle mura del Cremlino e dalla vecchia residenza dell’ambasciatore britannico? Quattro colpi sparati da una Makarov, la pistola in dotazione dei servizi segreti. Ma è una pista da niente. Le Makarov si comprano per un mazzetto di dollari, basta bussare alla porta giusta e Mosca è piena di queste porte. Allora dove si nasconde il peccato di Nemtsov, talmente grave da doverlo scontare con la morte? Forse negli inconfessabili segreti che fanno da sfondo a questo e ad altre esecuzioni come quella della giornalista Anna Politkovskaja. Da ex giovane riformatore ai tempi di Eltsin, con accesso alle carte segrete della nomeklatura, Nemtsov “sapeva”. Conosceva la “Mosca ribaltata”, quella del sottosuolo più nero dove si intrecciano, spesso strangolandosi, i legami tra politica corrotta e grande criminalità.



Non si tratta di qualche mafioso con la cassaforte piena di cocaina destinata alla tempestosa società dei nuovi ricchi, quelli che con la loro bulimia hanno colonizzato Londra e New York. Nemtsov aveva tentato di arrivare alle radici del male, cercando di attraversare il ponte che separa la verità dalla menzogna, un ponte che in Russia è sempre rimasto alzato, intransitabile. Il pedaggio è letale e il fossato è pieno di cadaveri politici e non solo. Da anni l’innovatore Gorbaciov in Russia è sparito dell’orizzonte. L’oligarca renitente Khodorkovskij è finito ai lavori forzati. Altri oppositori, con l’ex campione di scacchi Kasparov, sono liberi ma privi dell’energia necessaria per smuovere un’opinione pubblica che resta autistica, ripiegata su vecchi rancori e antiche paure nei confronti di un occidente materialista che minaccia di «corrompere la purezza e la spiritualità dell’ anima russa», secondo quanto predicava un Aleksandr Solzhenitsin negli anni della decadenza. Forse le ragioni dell’assassinio di Nemtsov vanno cercate tra le pagine di un libro di denuncia di cui era coautore, dove si parla delle immense ricchezze accumulate da Putin in persona e dalla sua cerchia più ristretta.



La possente macchina dell’accumulato, e del potere, ha un solo nome: Gazprom, il gigante planetario del gas e del petrolio che fa girare tutti gli ingranaggi. Ogni gesto di Putin porta questo marchio: dalle olimpiadi miliardarie di Sochi, alla battaglia per il controllo dell’Artico, alla manovra per piegare agli interessi del Cremlino la ribelle Ucraina. Putin dice che l’Occidente non capisce la Russia e vuole spezzare la sua ambizione di tornare grande potenza capace di misurarsi alla pari con America, Europa e Cina. Lo gridava anche Krusciov: indicava nello spazio i suoi Sputnik, ma non vedeva in terra la miseria dei suoi sudditi. Nemtsov era d’accordo con le sanzioni occidentali e anzi ne chiedeva di più pesanti, azzerando con questo ogni sintonia con il sentire comune.



Putin fa il contrario: promette ai russi un futuro radioso e imperiale, dice loro che nonostante “le inique sanzioni” potranno ancora comprare automobili tedesche, abiti italiani e vini francesi. Finora ha funzionato nonostante le profezie di Nemtsov, che in assenza di una svolta democratica prefigurava una patria misera e carceraria. Adesso è stato assassinato, Mosca è percorsa da mille illazioni.



Arrivano anche dai nemici di Kiev, dove il presidente Poroshenko ha ipotizzato che Nemtsov avrebbe pagato per un dossier che aveva raccolto, o stava raccogliendo su presunte infiltrazioni russe nei gangli dello zoppicante sistema politico e militare ucraino, al fine - ovviamente - di destabilizzarlo e farlo crollare dall’interno seppellendo per sempre ambizioni europeiste e atlantiste, che per Putin rappresentano l’alternativa del diavolo. Come è sempre accaduto qualche balordo, preferibilmente di origine caucasica, sarà dichiarato colpevole dell’assassinio, ma la mano che lo ha armato resterà sconosciuta. La parola “mandante” non appartiene al lessico del Cremlino. Delitto e castigo in Russia è un libro che non finisce mai.