Proposta agli alleati, ecco perché va rivista la strategia anti-Isis

di Alessandro Orsini
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Lunedì 1 Febbraio 2016, 23:56
La strategia americana basata sui bombardamenti aerei contro lo Stato Islamico ha fallito. Nonostante i 9.800 raid condotti finora, l’Isis ha fondato otto province ufficiali in Libia, Algeria, Nigeria, Penisola del Sinai, Pakistan, Afghanistan, Yemen e nord del Caucaso. Ha inoltre realizzato stragi in Francia, Turchia, Libano, Kuwait, Arabia Saudita, Tunisia e Egitto, uccidendo più di mille persone al di fuori dei propri confini nel 2015. Il 18 gennaio 2016, l’Europol ha pubblicato un report, in cui è scritto che l’Isis è capace di colpire qualunque obiettivo, «come, dove e quando vuole», e che al-Baghdadi avrebbe istituito un comitato permanente per organizzare attentati contro la Francia e altri Paesi dell’Unione Europea. Se poi si considera che gli americani stanno pregando i talebani di sedersi al tavolo delle trattative per pacificare l’Afghanistan, che è martoriato dai kamikaze, non è più possibile giocare con le parole: l’Occidente ha perso la guerra contro il terrorismo.

Dal 2001 a oggi, abbiamo invaso interi Paesi - l’Afghanistan e l’Iraq - abbiamo costruito una gigantesca industria dell’anti-terrorismo, che ci costa miliardi di dollari, e abbiamo mandato a morire migliaia di soldati occidentali in Medio Oriente con la promessa che avremmo sradicato il terrorismo. Il risultato è che, dopo quindici anni, la situazione è molto peggiore di com’era nel 2001. Anche l’uso dei droni per uccidere i capi delle organizzazioni terroristiche è fallito.

 

Il 2 maggio 2011, esultammo alla morte di Bin Laden, senza immaginare che gli attentati terroristici nel mondo sarebbero aumentati in maniera vertiginosa. Nel 2013, sono stati 10mila (18000 morti) e nel 2014 sono cresciuti fino a diventare 13.500 (33000 morti).

Alla luce di questi dati, la scelta dell’Italia di non bombardare l’Isis in Siria e in Iraq, nonostante le pressioni americane, è stata saggia. I nostri bombardamenti sarebbero stati inutili e avrebbero esposto le nostre città al rischio di un attentato terroristico. Purtroppo, la saggezza italiana si trova oggi a fare i conti con una situazione che, nel breve periodo, lascia pochi spazi di manovra. In Libia, l’Isis ha circa tremila miliziani, sparsi in almeno sei città, che sono Derna, Benghazi, Sirte, Ajdabiya, Nofilya e Sabrata. Gli uomini di al Baghdadi hanno iniziato ad attaccare le nostre piattaforme petrolifere e, come se non bastasse, al Baghdadi ha deciso di trasformare Sirte, dove si trovano circa 1200 combattenti, nell’epicentro jihadista del Mediterraneo. L’Italia aveva lavorato per la costituzione di un governo di unità nazionale, affinché i soldati libici si sbarazzassero dei jihadisti personalmente, ma quell’accordo è fallito e i bombardamenti americani e francesi appaiono imminenti.

Se nel breve periodo la strada in Libia appare segnata, domandiamoci, nel lungo periodo, quale contributo potrebbe dare l’Italia nella lotta contro l’Isis. L’Italia dovrebbe proporre una strategia basata sulla riduzione dei bombardamenti aerei contro le città controllate dall’Isis in Siria e in Iraq, per costringere l’Iran a impegnarsi in una guerra che, finora, ha scaricato quasi interamente sull’Occidente. Mentre la coalizione americana combatte contro le roccaforti dell’Isis nell’interesse di tutti, l’Iran si trova in una fortunata posizione strategica che gli consente di combattere soltanto nel proprio interesse. Detto più chiaramente, gli 11,4 milioni di dollari al giorno, che gli Stati Uniti spendono per riconquistare città come Ramadi, vengono risparmiati dall’Iran che li utilizza per bombardare i ribelli filo-americani in lotta contro Bassar al Assad.

La riduzione progressiva dei bombardamenti aerei contro l’Isis modificherebbe la posizione strategica dell’Iran, procurando quattro vantaggi all’Occidente e all’Italia.

In primo luogo, l’Italia conserverebbe la sua vocazione pacifista agli occhi dei musulmani di tutto il mondo che concepiscono il nostro Paese come un luogo di incontro tra Islam e Occidente, a differenza di Francia e Stati Uniti, che sono concepiti come luoghi di scontro.

In secondo luogo, ridurrebbe le possibilità di un’escalation in Palestina, contraendo il sostegno militare dell’Iran ad Hamas, a tutto vantaggio dei moderati di Fatah. In un discorso pubblico tenuto il 18 luglio 2015 a Teheran, Khamenei, la guida suprema dell’Iran, si è augurato la morte degli Stati Uniti e di Israele, e ha promesso che, nonostante la firma degli accordi per lo sviluppo del programma nucleare, continuerà a sostenere i gruppi che combattono contro il governo di Israele che, in un testo scritto, ha definito «il regime sionista assassino di bambini». Se l’Iran sarà costretto a spendere milioni di dollari per lottare contro l’Isis, lo slancio anti-israeliano di Khamenei sarà indebolito, mentre sarà rafforzata la moderazione di Rouhani, che ha sempre attenuato i proclami del suo leader con parole di distensione.

In terzo luogo, l’Iran sarà costretto a ridurre il sostegno in favore di Bassar al Assad, con un conseguente allontanamento delle armi iraniane dalla Siria, che atterriscono Israele, come Netanyahu ha spiegato a Obama, in una visita alla Casa Bianca del 10 novembre 2015.

Infine, modificando la posizione strategica dell’Iran, l’odio jihadista che infesta le città occidentali si attenuerebbe per dirigersi altrove. Una delle cause principali che spingono alcuni nostri concittadini verso il terrorismo islamico sono proprio i bombardamenti occidentali in Medio Oriente che vengono sfruttati dalla propaganda dell’Isis attraverso la diffusione di video e di fotografie via Internet.
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