Primarie Usa, tutti gli uomini dietro i candidati: ecco chi sono i manager di Trump, Sanders e Clinton

Primarie Usa, tutti gli uomini dietro i candidati: ecco chi sono i manager di Trump, Sanders e Clinton
di Anna Guaita
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Venerdì 12 Febbraio 2016, 00:08 - Ultimo aggiornamento: 13 Febbraio, 10:51
NEW YORK – Uno non dorme mai, uno ama i fumetti, uno parla greco antico. Sono diversi per età, personalità, carattere. Ma i manager della campagna elettorale di Donald Trump, Bernie Sanders e Hillary Clinton hanno tutti in comune uno stesso tratto: non amano essere sotto i riflettori. Corey Lewandowski, 41 anni, Jeff Weaver, 50 anni e Robby Mook, 36 anni,  sono manager di cui pochi conoscono i nomi, e quasi nessuno conosce la vita privata.  Eppure Lewandowski, Weaver e Mook sono tutti e tre veterani della politica, con lunghi curriculum.

Il primo è magro, nervoso, capelli cortissimi, severo con se stesso e i collaboratori. Trump lo ha pubblicamente ringraziato per la netta vittoria alle primarie del New Hampshire, e il Wall Street Journal ha raccontato che per ottenere quel successo il 41enne manager di origini polacche ha tirato avanti bevendo fino a 12 lattine di drink alla caffeina, dormendo solo 4 ore a notte e pretendendo la stessa dedizione dai dipendenti. Dice con vanto che gestisce la campagna con parsimonia e ricorda con evidente orgoglio i primi mesi in una stanzetta dal pavimento nudo, con tavolo e sedie pieghevoli e solo quattro assistenti part-time. Padre di quattro bambini tutti di età inferiore ai 12 anni, non ci ha pensato due volte a mettere a lavorare sia loro che la madre e la moglie a imbustare volantini nei giorni prima del voto. Ora – sull’onda della vittoria di martedì - sta aprendo uffici in venti Stati, e sta assumendo personale specializzato strappandolo alle campagne dei rivali. L’ultimo impiego di Corey Lewandowski per l’appunto è stato con i fratelli Koch, gli iper-milardari che investono milioni di dollari per influire sulla politica Usa e che non nascondono il proprio disprezzo nei confronti di Trump. A lui invece Trump piace molto, anzi sostiene che il successo e la popolarità che il businessman ha riportato finora si devono solo alla sua “naturalezza”, e ha fatto adottare ai collaboratori uno slogan privato che viene ripetuto sempre: “Let Trump be Trump”, cioé non cercate di cambiarlo, perché alla gente piace così.
 
 
Che è poi anche la convinzione che guida la campagna di Jeff Weaver per fare eleggere il suo vecchio amico Bernie Sanders alla Casa Bianca. Weaver è stato vicino a Sanders da quando appena 20enne, nel 1986, cercò di aiutare l’allora sindaco di Burlington a farsi eleggere governatore del Vermont. La campagna andò male, ma Weaver rimase vicino a Sanders (che fu sindaco fino al 1989), di cui condivideva le idee socialiste, ed entrò nella sua campagna per l’elezione a deputato a Washington nel 1991. Dopo l’elezione, Weaver fece carriera nello staff del deputato, diventandone il principale consigliere, per poi guidarne la campagna di elezione a senatore nel 2006. Weaver cioé è stato accanto a Sanders in tutti i 35 anni di fortunata carriera politica del 74enne candidato alla Casa Bianca. E tuttavia nel 2009, stanco di tanta politica e delle beghe di Washington, si ritirò e si dedicò all’altra sua passione, i fumetti. Da anni Weaver collezionava immense quantità di comics e giochi da tavolo, e la raccolta è stata la base del negozio “Victory Comics”, che ha aperto a Falls Church, non lontano da Washington. La rivista Mother Jones, in un ampio ritratto di Weaver, ha raccontato sorridendo sotto i baffi come uno dei giochi più costosi nella sala di Victory Comics sia “Fortress America”, un gioco da tavolo degli anni Ottanta che si basava sulla premessa che gli Stati Uniti stessero per essere invasi da orde di socialisti europei, finanziati dall’Unione Sovietica. Weaver è tornato in pista, per il bene di Sanders, ma “dopo la sua elezione – ha detto – me ne tornerò ai miei fumetti”.

Dei tre manager quello che al momento sembra avere il compito più difficile è Robby Mook che deve tentare di allargare la popolarità di Hillary presso un pubblico più giovane, sia maschile che femminile. Mook manco a farlo apposta è il più giovane di tutti i manager delle campagne in corso, ed è anche il primo dichiaratamente gay. Ha un gruppo di collaboratori molto fedeli, che si sono autonominati ironicamente  “Mook Mafia”, come “commento ai metodi mafiosi dei repubblicani”. Mook è sempre stato appassionato di politica, fin da quando aveva 16 anni e faceva il volontario per un deputato della legislatura dello Stato del Vermont, e ha diretto con successo la campagna per la senatrice Jeanne Shaheen del New Hampshire e del governatore della Virginia Terry McAuliffe. Eppure all’università, alla Columbia, non ha studiato scienze politiche ma letteratura classica, appassionandosi ai filosofi greci, di cui ancora oggi conserva i testi in casa per rileggerli (in lingua originale) quando è molto stressato. E stressato Mook deve esserlo: nonostante sia giovane, della stessa età di Chelsea Clinton, nonostante abbia una truppa di collaboratori tutti sotto i 40 anni, non gli è riuscito finora di conquistare per Hillary il sostegno dei “Millennials”. La scommessa vera tuttavia viene per lui negli appuntamenti del Nevada il 20, e della Carolina del sud il 27, e poi nel SuperTuesday il primo marzo, quando votano 12 Stati. Se anche allora la performance di Hillary dovesse essere scarsa, Mook potrebbe essere rimpiazzato. Guarda caso, in questi giorni Hillary ha preso a bordo anche Jen O'Malley Dillon, che nel 2008 fu la manager della campagna presidenziale di Barack Obama contro John McCain negli “Stati in bilico”, quelli che Obama riuscì ad aggiudicarsi, vincendo la Casa Bianca.
 
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