Attacco al Pentagono/ Il silenzio delle immagini che parla sedici anni dopo

di Oliviero Toscani
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Sabato 1 Aprile 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 10:17
Fuoco, fumo, lamiere, distruzione, bandiere carbonizzate a stelle e strisce, pezzi di carlinga, fili elettrici, pompieri che si affannano intorno alla scena di un disastro.

È l’11 settembre del Pentagono, il giorno in cui un Boing 757 colpì uno dei totem degli Stati Uniti. Sono immagini che L’Fbi diffonde a quasi sedici anni di distanza. Immagini che feriscono. Immagini che fanno male. Immagini che “ingaggiano” la nostra coscienza. Immagini che documentano l’orrore, ci fanno domandare a che punto siamo arrivati, che ci insegnano che per diventare più civili passare attraverso il dolore è inevitabile e insinuano che forse, qualche responsabilità l’abbiamo anche noi. Immagini che hanno l’enorme, ineguagliata potenza che solo il silenzio che ci costringe a pensare restituisce. Accade con le foto di Hiroshima, con il lampo che ferma Aldo Moro gettato come un cane in una Renault 4 nel 1978 in via Caetani a Roma o con una delle istantanee che ha commosso il mondo, quella di Aylan, il bambino che provava a emigrare verso un orizzonte diverso e invece abbiamo recentemente visto riverso su una spiaggia turca senza vita. Agli studenti del “never ending photo masterclass” a cui racconto cosa significhi fotografare, spiego sempre che la vera storia esiste da quando esiste la fotografia.

Un fatto è accaduto davvero soltanto se c’è n’è prova fotografica. Ed è vero anche il suo contrario. Se ci fosse stata la macchina fotografica, forse persino la Bibbia non esisterebbe. E sicuramente non esisterebbero i Vangeli. Tutto ciò che conosciamo, lo conosciamo perché lo vediamo attraverso le immagini. La fotografia è l’unico mezzo che ancora ci mette in crisi. Fotografare significa avere qualcosa da dire. Adesso, per dirla con Billie Holiday, vediamo le foto dell’11 Settembre come se fossero “strani frutti” provenienti da un mondo che dopo il 2001 abbiamo imparato a conoscere sotto un’altra veste. Mi hanno sempre accusato di lavorare sulle immagini choc, ma non è vero perché fotografare non è altro che documentare un evento che è accaduto. La fotografia è come un esorcismo.

La società primitiva aveva le maschere, l’aristocrazia i suoi specchi, la borghesia i suoi quadri, noi, nuovi artisti abbiamo la fotografia. Noi crediamo e costringiamo il mondo con la tecnica. Ormai il mondo crede molto di più alla realtà attraverso la tecnica fotografica che alla vera realtà. Attraverso la fotografia è il mondo che s’impone a noi, e l’effetto sorpresa di questo capovolgimento è davvero considerevole. La fotografia è il medium per eccellenza di quell’enorme pubblicità che il mondo fa di se stesso, che si fa con ciò che è messo per immagini, costringendo la nostra immaginazione a impegnarsi, a chiedersi, le nostre passioni a travestirsi, la nostra morale ed etica a interrogarsi.

Chi non ha mai fotografato seriamente, non ha mai provato questo trasporto oggettivo dell’immagine, magari di mattina, in una città straniera, o in un deserto, o in mezzo alla folla, non capirà mai niente della delicatezza anche delle cose più brutte del mondo. Dei volti e delle storie che c’erano dietro ai freddi numeri. I 64 passeggeri. I 125 dipendenti del Pentagono. Bambini, mogli, affetti. Fotografare non è prendere la realtà per oggetto, ma farla diventare oggetto, L’immagine fotografica è discontinua, puntuale, imprevedibile, irreparabile, come lo stato delle cose a un momento dato. I primitivi, i miserabili, le situazioni tragiche, il disumano è più fotogenico e facile da fotografare. Qualunque sia il rumore e la violenza che la circonda, la foto restituisce l’oggetto all’immobilità e soprattutto al silenzio. Il silenzio della foto è forse la sua qualità più preziosa, a differenza del cinema e della televisione e di tutto il resto a cui dovremmo imporre silenzio, senza mai riuscirci.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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