Parigi pietrificata e muta in fila per donare il sangue

Parigi pietrificata e muta in fila per donare il sangue
di Mario Ajello
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Sabato 21 Novembre 2015, 12:46 - Ultimo aggiornamento: 15 Novembre, 10:03
dal nostro inviato

PARIGI Hanno chiuso Disneyland. Hanno chiuso i mercatini natalizi degli Champs Élysées. I negozi intorno a Boulevard Voltaire, zona di azione dei barbari dell'oscurantismo sanguinario intitolata per una beffa della storia al grande illuminista, hanno tutti le serrande abbassate e qualcuno ha i vetri forati dalle pallottole jihadiste. A La Belle Epoque, il ristorante dove i kalashnikov hanno ucciso 19 persone, si avvicina il giorno dopo una ragazza e in uno dei buchi provocati dai proiettili infila una rosa con un bigliettino dove é scritto: "Au nom de quoi?", in nome di che che cosa?

RIGAGNOLI DI SANGUE

Parigi é una città pietrificata, di fronte alla prima scena che si trova davanti agli occhi all'indomani della mattanza. La strada davanti al teatro Bataclan, dove sono stati trucidati 82 ragazzi, ha ancora qualche rigagnolo di sangue sul marciapiedi, resti di chiazze rosse di ferite aperte dalle raffiche e queste - insieme a pezzi di vestiti laceri, a scarpe perdute nella fuga, a guanti rimasti sul selciato - sono le tracce di chi é riuscito a salvarsi scappando ma ha lasciato nella sala del massacro gli amici defunti, le fidanzate o i fidanzati portati via nella notte e fino all'alba dentro le sacche mortuarie. Parigi é cosi nell'immediata post-apocalisse: livida e silenziosa. Poi cerca di riprendersi, di farsi coraggio nella corsa a donare il sangue alle centinaia di feriti gravi. Nella cerimonia dei ceri che vengono accesi sulle macchie di sangue che non riesce a diventare secco, dei fiori che vengono posati nella vicina Place de la Rèpublique e nei luoghi del lutto, in quella celebre poesia meravigliosa di Paul Eluard (riprodotta su un foglietto appiccicato al Carillon Café tutto crivellato) che si intitola "Libertá": «Sui miei quaderni di scolaro / sulla mia cattedra e sugli alberi / sulla sabbia, sulla neve / scrivo il tuo nome».

E intanto Parigi, attraversata da sirene, deserta in molte parti perché sindaco e prefetto hanno chiesto ai cittadini di restare a casa, sa che deve trovare subito una sua nuova normalità ma non riesce a non tremare. Questa è la città pietrificata, nella quale «facevamo canzonette, mentre la morte ci stava invadendo»: come dice dal suo rifugio blindato, a causa delle minacce jihadiste, Michel Houellebecq, l'intellettuale-Cassandra, il più sensibile di tutti rispetto alla terribilità del delirio islamista. Parigi si illudeva di potersi aggrappare alla liberté, egalité, fraternité, di riuscire a cullarsi ancora nelle sicurezze, nei diritti e nei piaceri - compreso quello dell'incoscienza - frutto di una lunga civilizzazione e invece è andata a sbattere contro la tremenda realtà del sangue.



Un padre racconta a un bimbo - uscendo dalla metro vicino alle Galleries Lafayette, uno dei grandi magazzini più popolari di Parigi ieri evacuato a causa di un pacco sospetto - degli attacchi di queste ore: «È stata una guerra». Lo accuseranno di essere politicamente scorretto perché ha definito "islamici" gli islamici che hanno sparso il terrore? Viene smontata subito la locandina del film, raffigurante un kalashnikov, Made in France di Nicolas Boukhfief e rinviata l'uscita della pellicola nelle sale perché racconta la storia di un giornalista che riesce a infiltrarsi tra gli integralisti delle banlieu parigine e non è il caso adesso di toccare questi temi.



Autocensura. Paura. C'è chi sforna immagini così, nel primo giorno della elaborazione del lutto che sarà lunga e politicamente complicatissima non solo in Francia ma in tutta l'Europa: le luci della Ville Lumière si sono spente, forse è il segno del tramonto dell'Occidente. Ma ci si fa forza, anche nei bar, così come durante la fuga dell'altra notte dallo stadio bombardato, fischiettando la Marsigliese. Che in queste ore sembra assumere l'andamento di un requiem.



LE ILLUSIONI

Ci si illudeva fino a un minuto prima del massacro di poter essere normali in questa grande città al centro del mirino, e perfino di poter esibire la normalità quale segno di forza e antidoto alla barbarie. Il risveglio parigino da questo stato di pacificazione senza pace sono state le raffiche di cui ancora pare di sentire l'eco. Chiedeva Hitler, prima che gli alleati liberassero la capitale francese: «Parigi brucia?». «Non brucia», si fanno coraggio due anziani davanti alla Grande Synagogue in due de la Victoire. Poi la coppia, con la kippah sul capo, si allontana. Qui hanno assaltato le sinagoghe e le scuole ebraiche. E qui, in Francia, a Lione, hanno decapitato un dirigente industriale e hanno lasciato la sua testa davanti al capannone, per avvertire tutti che il jihad globale é tra di noi.



Spiega Houellebecq agli amici che riescono a raggiungerlo: «Quello che accadde a Charlie Hebdo fu soltanto l'inizio. Questa é la continuazione e poi ci sarà la continuazione della continuazione». E ancora: «Se potranno, provocheranno una guerra civile in Francia. Ma anche l'Italia entrerà nel mirino».



LA FINE DEL MONDO

Come i musei, le biblioteche, le piscine, le palestre, i mercati alimentari, gli uffici municipali, anche le scuole di Parigi sono chiuse. Ma in quelle nei quartieri ad alta immigrazione musulmana, restano appesi alle pareti i cartelli del ministero degli Interni dove si raccomanda alle famiglie di segnalare alle autorità eventuali tracce di jihadismo riscontrate nei figli adolescenti. Tra i segnali a cui portare attenzione: «le allusioni frequenti alla fine del mondo». Il delirio da Apocalisse come movente dei ragazzi-bomba del tipo di quelli che hanno insanguinato questa città. Basta farsi un giro in una qualsiasi banlieu, a Saint Denis per esempio, e si possono leggere sui muri innumerevoli scritte che dicono: «Vive le Prophète Mohammed».



Inneggianti non a Maometto per ciò che è ma a una sua supposta versione sanguinaria. I ragazzi di queste periferie da cui arrivano alcuni degli assassini del Bataclan sono stati educati nella convinzione - ecco la beffa e il fallimento del multiculturalismo! - di avere il mondo contro. E a beneficiarne sono i predicatori estremisti e i preparatori della guerra santa al grido «Allah Akbar» che è risuonato l'altra notte prima che i kamikaze si facessero esplodere. Adesso, per contrasto, è tutto un parlare sottovoce, e gira di mano in mano una vignetta di un disegnatore di Charlie Hebdo, Joann Sfar, in cui un omino dice: «Non abbiamo bisogno di più religione, ma di più fede nella musica, nei baci, nella vita, nello champagne, nella gioia». Il sommo Emil Cioran, che "Sulla Francia" scrisse un preveggente pamphlet, non sarebbe stato d'accordo. Ha sostenuto che «la fecondità di un popolo sta nel generare miti e aderirvi, lottare, soffrire e morire per quelli».

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