Papa Francesco a Lesbo con lo sguardo rivolto all’Europa

di Biagio De Giovanni
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Domenica 17 Aprile 2016, 00:11 - Ultimo aggiornamento: 00:14
Quando la realtà diventa drammatica, tesa su crinali estremi, per forza di cose gli sguardi si divaricano, esprimono punti di vista diversi, indicati con nomi diversi. Lo sguardo del Papa, anzitutto. Dinanzi ai migranti accatastati in baracche provvisorie o esposti alle intemperie da settimane, il pontefice non può che vedere l’umanità dolente, il dolore del mondo portato alla luce, il lamento di chi chiede asilo, l’immagine di uomini messi come in croce da circostanze che egli ebbe il coraggio di chiamare “di guerra”, una guerra mondiale combattuta a pezzi, quando le voci tremule dei politici di turno distinguono, discettano, oscurano e fanno capire con sdegno che solo un guerrafondaio può parlare di guerra. E intanto milioni di esseri umani, spinti da qualcosa che non si dovrebbe sapere che cosa sia, e che ci assicurano che non ci tocca, bussano alle nostre porte, un’umanità nuda, una folla di corpi, soli con se stessi, etnie mescolate, tutti gettati nei barconi della speranza, anzitutto nella speranza di sopravvivere al viaggio.

Un Papa che ha voluto chiamarsi Francesco è comparso sulle spiagge di Lesbo, in Grecia, nei giorni stessi nei quali l’Austria minaccia la chiusura del Brennero per ridurre l’impatto delle folle provenienti da quelle rotte mediterranee che, dopo l’accordo “peloso” con la Turchia, resta l’unica via di accesso all’Europa. Un Papa che si è voluto chiamare Francesco, ha detto, con la sua parlata lenta e profonda, ciò che doveva dire, di sentirsi parte di tutto il mondo dove c’è vita e domanda di vita, di prendere sulle proprie spalle il dolore del mondo, di definire il problema dei migranti come la più grande emergenza umanitaria dal tempo della seconda guerra mondiale, fino al gesto simbolico di accogliere dodici di essi in Vaticano, un piccolo gesto che vorrebbe formare esempio. L’invocazione del Papa è alla solidarietà dell’Europa.
 
Naturalmente ci sono altri sguardi sullo stesso mondo tragico. C’è lo sguardo chiuso, ostile, riverso su se stesso, che rifiuta di vedere quello che viene nascosto dietro un Muro. Non vedo, e dunque la cosa sparisce, non c’è più, e comunque non mi riguarda più. Se dietro quel Muro si sente qualche rumore, se addirittura si sente chiasso, si immagina caos, e magari qualcuno addirittura cerca di attaversarlo, allora quello sguardo immagina che la pallottola di gomma o il gas urticante bastino per il respingimento. L’irrealismo di questo sguardo sta nel fatto che nel suo orizzonte visivo c’è solo il Muro, una sorta di esorcismo immunitario, di medicina magica che ti difende. Ma dietro quel Muro la folla dei corpi aumenterà, il grido lo varcherà, e quella sicurezza che voleva esser tutelata si sentirà insicura sapendo che, fuori, la folla aumenta di numero, e prima o dopo troverà la via per varcare il confine.

C’è lo sguardo del filosofo europeo che si ricorda di appartenere a un continente dove estreme visioni si sono combattute, ma dove una grande filosofo, parlando, a fine XVIII secolo, del diritto di’asilo, scrisse che esso, per lo straniero, nasce dal fatto che la terra, essendo sferica, impedisce che ci si possa disperdere nell’infinito, e prima o dopo ci fa tutti incontrare in uno spazio comune: una idea visionaria, carica di senso umano. Il filosofo si chiamava Immanuel Kant, ed è rimasto nella storia come emblema dell’illuminismo europeo, sostenitore di una volontà che, nella sua tensione verso il bene e la libertà, poteva vincere i confini della ragione calcolante. Si dice, da chi ha lo sguardo confinato dal Muro, inchiodato su di esso, ma che contano i filosofi? Con le loro utopie? Ci lascino lavorare, loro vogliono solo salvarsi la coscienza. Ma la cosa non sta proprio così, il filosofo riassumeva, nel suo sforzo di comprensione, il pezzo di una storia che ha fatto la civiltà europea, contrastato da altre visioni, mescolato ad altre scene, diritto e violenza spesso mischiati, ma anche spesso distinti, e la civiltà europea diventata, dopo tante traversie, anche civiltà del riconoscimento.

C’è lo sguardo della politica che comprende vari sguardi, non quello inchiodato al Muro, che è un rozzo sguardo impolitico; ma, sì, quello aperto a una più generosa accoglienza, quello che si defila perché più lontano dalle scena della tragedia, quello che si adopera per salvare vite umane nel Mediterraneo, quello che più freddamente comprende l’entità del fenomeno, le tensioni che guidano una vera e propria dislocazione di un pezzo di umanità da un continente all’altro e appresta risposte possibili. Molti sguardi, che devono trovare il punto d’incontro, pena la fine dell’Europa sotto i colpi congiunti dei suoi molti punti critici. Ma, aggiungo, nessuno dei suoi punti critici è della dimensione di quello dei migranti. E’ lì che si decide il destino di Europa. Lo sguardo vario della politica europea (ossimoro, per ora) deve trovare il punto di equilibrio, e varie proposte si vanno formando. Germania, Italia, soprattutto, sembrano più consapevoli del problema, e lavorano in questa direzione. Bisogna impegnarsi per un equilibrio europeo capace di risposta, altrimenti, per davvero, finis Europae. Questa è la posta in gioco. La disgregazione è alle porte. E non è data dai migranti, ma dalla mancata risposta dell’Europa.

Torniamo sullo sguardo di Papa Francesco. Esso non potrà mai coincidere con lo sguardo della politica, e il papa lo sa benissimo. Ed è anche giusto che sia così, la politica deve operare per bilanciamenti e compromessi, tutelare sicurezza e libertà dei cittadini, umanizzare le frontiere senza poterle solo negare Ma è allora poco significativo, quello sguardo? Proprio no, è di essenziale significato. La storia procede così, per incrocio di sensibilità e di propositi diversi. La storia ha bisogno degli sguardi universali, liberi da ogni condizione ristretta, obbligante; ha bisogno dell’impossibile per render concreto e raggiungibile il possibile. Lo sguardo universale del papa richiama l’umanità a un suo compito, in modo da eseguire con strumenti limitati ciò che si può fare, ciò a cui non ci si può sottrarre. Il papa si immerge nel dolore della nuda vita, senza aggettivi, e da lì lancia la sua parola di pietà. Un modo per porre al mondo la realtà di un vincolo che non potrà più essere negato.
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