Panama e Brexit: quanto pesano gli errori di Cameron

di Francesco Grillo
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Lunedì 11 Aprile 2016, 00:07 - Ultimo aggiornamento: 00:08
«L’evasione fiscale non è solo illegale; è immorale. Gli evasori dovrebbero essere trattati nella stessa maniera nella quale trattiamo i delinquenti comuni»: queste frasi pronunciate dal ministro britannico Osborne dopo il vertice del G20 dedicato alla guerra all’evasione globale, diventano un boomerang. Lo diventano nel momento in cui David Cameron ammette di aver «sbagliato e di aver appreso la lezione» che arriva dallo scandalo delle carte sui conti detenuti da non residenti a Panama. Se le parole del cancelliere di Sua Maestà - assolutamente simili a quelle pronunciate in diverse occasioni dai ministri dell’economia italiani - erano da prendere sul serio, l’incidente mette a repentaglio la sopravvivenza di uno dei pochi leader ancora stabili in un Occidente senza più punti di riferimento. E rischia di compromettere lo stesso esito del referendum che può portare la Gran Bretagna fuori dall’Europa e l’Europa sul precipizio di una crisi che moltiplicherebbe tutte quelle che, finora, si sono accumulate senza essere risolte. La vicenda delle carte relative ai conti detenuti da non residenti a Panama è, in fin dei conti, una metafora di cosa la globalizzazione - non governata - rischia di diventare. Ma anche una dimostrazione di come certi fenomeni complessi possono uscire fuori da qualsiasi controllo, se chi lo governa non recupera, immediatamente, la capacità di ragionare, di concepire una strategia in grado di distinguere problemi nuovi e abusi antichissimi.
 

David Cameron è, in questi giorni, costretto ad una posizione - per qualche verso simile a quella del ministro delle riforme istituzionali in Italia - che diventa ancora più scivolosa quando sei sotto la lente d’ingrandimento di media e opinioni pubbliche abituati a non fare alcuno sconto: difendere l’onestà di suo padre e prenderne, contemporaneamente, le distanze. Il padre del primo ministro lavorò, infatti, per tutta la vita, come molti dei suoi antenati, alla gestione dei patrimoni di individui estremamente ricchi: un’attività assolutamente lecita e che ha senso, però, solo se il gestore persegue il proprio mandato che è quello di trarre vantaggio di qualsiasi possibilità - inclusa quella della riduzione delle tasse - di incrementare il ritorno assicurato ai propri clienti. Qualsiasi possibilità lecita, laddove, tuttavia, il confine tra ciò che è legale e ciò che non lo è, è stato, in questi decenni, profondamente cambiato. Ciò che, infatti, ha trasformato drasticamente la natura stessa delle attività che “evitano tasse”, nonché la loro dimensione ed effetti, è un fenomeno che non è certo nato per consentire l’evasione.

La globalizzazione delle catene mondiali attraverso le quali si producono prodotti e servizi hanno avuto, infatti, assieme a conseguenze di portata storica - quali la promozione al rango di classe media di centinaia di milioni di diseredati - anche effetti collaterali come quello di ridurre la capacità dello Stato di tassare il reddito che si produce sul proprio territorio: ciò perché, semplicemente, le tecnologie stanno erodendo il concetto stesso di territorio e, dunque, la possibilità di stabilire dove un certo reddito è stato prodotto. Il problema è, però, che a fenomeni semplicemente nuovi e che chiedono, con urgenza, regole altrettanto nuove, si mischiano schemi nati con il solo obiettivo di sottrarsi ai propri doveri. Le multinazionali spostano, ad esempio, profitti regolarmente ai Paesi dove le aliquote fiscali sono più basse, perché nessuno potrà mai effettivamente stabilire a quale nazione attribuire la realizzazione di un processo innovativo al quale, inevitabilmente, partecipano persone e gruppi che lavorano a distanza di migliaia di chilometri.

Tra le pieghe di fenomeni che sono naturale evoluzione di sistemi economici sempre più sofisticati, si nasconde però l’abuso. Spesso di enormi dimensioni. È solo di qualche giorno fa l’intervento dell’amministrazione americana che ha impedito la conclusione di una delle più grandi fusioni della storia - quella tra i colossi farmaceutici Pfizer e Allergan - che aveva, appunto, come obiettivo esclusivamente quello di trasferire dagli Stati Uniti all’Irlanda la sede sociale e utili per 128 miliardi di dollari per approfittare di un’aliquota molto più bassa. I conti di Panama sono anch’essi conseguenza non prevista e non studiata di una globalizzazione che nessuno governa. È normale, infatti, nonostante le dichiarazioni infastidite di qualche uomo di spettacolo italiano, avere conti in più di un Paese e ciò diventa indispensabile per quelle imprese e persone che devono vivere per lavoro attraversando, continuamente, con l’aereo o attraverso la rete, i confini dei vecchi Stati per produrre valore economico.

Nel nuovo che avanza, convivono innovazioni che cambieranno in meglio il mondo; rischi spaventosi; e, più modestamente, la “delinquenza comune” di cui parlano i leader decisi a combattere fenomeni che erodono le entrate e il potere degli Stati che governano.
Provare a fare i conti con una modernità insidiosissima a colpi di annunci può essere senza alternative nel breve periodo e fatale in quello medio. Occorre riscoprire capacità di studiare, di immaginare futuro, di discernere, di orientare. Perché il rischio è che la globalizzazione - ritenuta per tanti anni inesorabile - cambi direzione precipitandoci nel conflitto: è quello che sta già succedendo tra l’ostilità degli elettori e le furbizie di politici destinati a ballare per una sola stagione. È forse questo il senso più profondo della crisi che - in realtà - rende simili il Regno Unito all’Europa proprio mentre stanno crescendo le possibilità di una separazione.
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