Lo scenario internazionale/ Ma l’onda nera è un’invenzione che non regge

di Marco Gervasoni
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Sabato 23 Luglio 2016, 00:28 - Ultimo aggiornamento: 00:34
Pare che sia in arrivo una “onda nera”, ma non pensate agli scarichi delle petroliere in mare. L’onda sarebbe quella del populismo, dell’autoritarismo.

Addirittura del fascismo di Mussolini e di Hitler, come ripetevano ossessivamente numerosi ospiti della Cnn nel commentare la convention repubblicana. E se persino giornali autorevoli come il “Washington Post” evocano il dark speech di Trump, figurarsi da noi, dove per vent’anni si è additato in un libertario-libertino come Berlusconi il “cavaliere nero”. Se però gli osservatori si emancipassero dall’emozione meglio condivisa del nostro tempo, la paura (genuina o simulata), aiuterebbero i cittadini a capire meglio.

Non esiste nessun’onda e se anche ci fosse non avrebbe nulla a che vedere con l’autoritarismo. Trump, Le Pen, i brexiter Niels Farage e Boris Johnson, l’austriaco Norbert Hofer, per citare solo alcune delle figure che agitano i sonni di molti, hanno conquistato il loro ruolo non attraverso la violenza politica, come i movimenti fascisti del secolo scorso, ma partecipando alle regole del gioco democratico e liberale, raccogliendo voti, proponendo idee. A molti - a cominciare da chi scrive - queste non piacciono perché poco funzionali, ma sono idee con cui confrontarsi, gridate o meno che siano. Non si vede poi nessun’onda perché tutti questi uomini (e donne), più che populisti vanno definiti per quel che sono, cioè “nazionalisti”. E i nazionalisti hanno sempre problemi ad accordarsi con quelli degli altri Paesi. Hofer, che a settembre potrebbe vincere il replay dell’elezione presidenziale, per esempio rivuole il sud Tirolo, proposta che i suoi fan Meloni e Salvini immaginiamo non condividano. E anche per questo che i nazionalisti hanno sempre avuto difficoltà nel creare un gruppo unico al Parlamento europeo, come invece i popolari, i socialisti e i liberali.

Non ci travolgerà nessuna onda, poi, perché tutti questi movimenti incarnano la voglia di nazione del nostro tempo, sentimento reale e fondato, che ognuno interpreta però secondo la tradizione politica del proprio Paese. Quella di Trump non ha Mussolini nel suo bagaglio e per certi aspetti riprende un sentire che era del partito repubblicano della prima metà del Novecento, poi abbandonato da Nixon e soprattutto da Reagan. Johnson non è certo il nipotino di Sir Oswald Mosley, il capo del fascismo inglese negli anni Trenta, ma l’erede di una tradizione del conservatorismo inglese e del thatcherismo, sempre critico nei confronti non dell’Europa ma della Ue. Marine Le Pen è ancora tutt’altra cosa, incarnazione del nazionalismo francese, in quanto tale al di là della droite e della gauche - e anzi il suo programma economico è più vicino al socialismo che al liberalismo. Oggi elogia Trump, ma il Fn da molto tempo è un partito fortemente antiamericano, e non c’è da credere che diventerà filo stelle e strisce nel caso Trump diventasse presidente. E, last but not least, non c’è un’onda perché questi leader hanno un futuro diverso di fronte a loro.
 
Trump potrebbe anche vincere, obiettivo assai più difficile per Le Pen: arriverà probabilmente al secondo turno ma, in ragione della legge del ballottaggio, gli elettori della sinistra, una volta escluso il loro candidato, si asterranno o voteranno per quello dei conservatori. Quanto a Johnson, a guidare il Regno Unito ci sarebbe potuto andare: non ha voluto. Segno evidente che questi nazionalisti sono assai efficaci nel raccogliere voti per distruggere un sistema, ma non sembrano avere le idee chiare su come costruirne uno nuovo.
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