Meglio la Nato per missioni militari modello Kosovo

di Ennio Di Nolfo
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Domenica 15 Febbraio 2015, 23:32 - Ultimo aggiornamento: 16 Febbraio, 11:56
Qualcuno ha detto che «la Libia è la nostra Ucraina». Si tratta di una enfatizzazione per ora ingiustificata. Tuttavia sarebbe un terribile errore sottovalutare i pericoli che l’avanzata dei fondamentalisti islamici in Libia, fino a Sirte e, fra poco, fino a Misurata e magari Tripoli presenta per l’Italia e per tutta l’Europa. Quando, in un solo giorno, 12 gommoni carichi di immigrati clandestini vengono intercettati e salvati dalle navi che pattugliano il Mediterraneo centrale, nulla vieta di pensare che in un altro giorno, forse non 12 gommoni ma alcune motovedette armate del Califfato si affaccino nelle acque di Lampedusa, di Malta o di Siracusa con intenzioni meno angosciate.

Naturalmente anche questa è pura enfatizzazione. Il Califfato non ha (ancora) i mezzi militari per compiere imprese così azzardate e così lontane dalle sue basi di partenza. Sarebbe semplicistico immaginare che in questo modo avesse inizio il ritorno dei fedeli di Maometto sul continente europeo, dal quale furono cacciati nel 1492.



Ma meno semplicistico è immaginare una rapida infiltrazione di elementi capaci di diffondere ovunque, da Parigi a Copenaghen, violenza, disordine, ingovernabilità, rese ancora più dirette dal gran numero di fedeli islamici che, pur pacificamente, già vivono in Europa. In Libia la situazione non è mai migliorata, a quattro anni dalla cacciata del dittatore Gheddafi. Con la sapienza del tempo è oggi sin troppo facile osservare che quello fu un grossolano errore compiuto da francesi e britannici con la collaborazione degli Stati Uniti. Un errore non per l’eliminazione del dittatore ma per la inconcepibile mancanza di progetti sul futuro della Libia, per la mancanza di poteri forti in grado di assumersi la responsabilità di governare un paese che tutto aveva, tranne la solidità istituzionale e che era tenuto assieme dalla crudezza del regime gheddafiano. Sia chiaro.



on si intende con questo affermare che la fine di Gheddafi non fosse auspicabile e giustificata ma affermare che quando si aizza una rivoluzione, i governi responsabili dovrebbero sapere che cosa accade dopo di essa. In Libia dal 2011 in poi vi è stato solo il caos politico e istituzionale: al punto che oggi esistono due governi: uno che si dichiara legittimo per essere il frutto di elezioni alle quali prese parte solo il 20 per cento degli aventi diritto; e un altro che invoca la legittimità formale, poiché ritiene di essere stato sostituito da un potere privo di base democratica.



Il primo, respinto da molte forze e costretto a rifugiarsi a Tobruk per governare con un minimo di appoggio egiziano; l’altro insediato a Tripoli e sorretto dal mondo islamista. Fra questi due soggetti, decine di tribù attente alla tutela dei propri interessi e, come oggi è chiaro, un numero crescente di gruppi di fondamentalisti islamici, probabilmente provenienti dal Chad, dal Niger o dalla Nigeria e capaci di affermare la loro autorità prima a Derna, senza incontrare visibili ostacoli, poi a Sirte, dove hanno osato affermare di essere i proseliti e i rappresentanti del Califfato proclamato in Iraq da al-Baghdadi.



Contro l’affacciarsi di questo pericolo, prima il ministro Gentiloni e poi il ministro Pinotti hanno reagito in maniera netta, affermando, il primo, che l’Italia è “pronta a combattere in Libia in un quadro di legalità internazionale”; e la seconda confermando la disponibilità dell’Italia a partecipare in maniera significativa alle missioni che verranno decise. Si tratta di reazioni precipitose?



La risposta è sin troppo semplice: pensare che l’Italia sia pronta “a combattere” contro il Califfato vuol dire enunciare un proposito che richiede, in ogni caso, una preparazione meno frettolosa di quella che nel 2011 gli alleati dell’Italia fecero dimostrazione. A questo proposito la risposta ufficiale è semplice: sarà l’Onu che dovrà legittimare un’azione militare contro il Califfato. Ma anche questa affermazione appoggia più sulla speranza che sul realismo, poiché ben difficilmente le Nazioni Unite agiranno con rapidità e univocamente.



Invece esiste una diversa via da percorrere e sorprende che, a quanto pare, essa non sia ancora stata evocata. Questa via è la Nato. Non si deve dimenticare che Italia, Turchia, Grecia, Albania, Spagna e, indirettamente, Malta (cioè gli Stati minacciati dal Califfato) fanno parte del sistema atlantico e che questo prevede consultazioni in caso di pericolo e azioni militari comuni in caso di necessità. Si tratta di una formula collaudata, per citare un solo esempio, nel Kosovo, dinanzi a una minaccia meno vasta. Ma di una formula che potrebbe servire da esempio anche oggi.