Tra i migranti sulle spiagge greche: l'unico bagaglio è uno smartphone

Foto di gruppo per bambini e ragazzi siriani sbarcati sulle spiagge di un'isola greca
di Giulia Aubry
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Lunedì 7 Settembre 2015, 17:15 - Ultimo aggiornamento: 17:41
La terra promessa. C’è chi la bacia. Chi la benedice. E chi ci si fa i selfie. Una terra promessa aspra di pietre e bagnata dal mare, come lo fu a suo tempo quella destinata dal Signore a Mosè e alla sua gente, profughi in fuga dalle persecuzioni e dalla schiavitù di Egitto. Oggi a fuggire da una guerra sanguinosa e dalla schiavitù dei terroristi di Isis sono centinaia, migliaia di siriani. Il loro mare non è il mar Rosso ma l’Egeo. Ma a loro nessuno ha promesso un riparo sicuro. Le acque di quel mare non si sono aperte di fronte a loro, anzi spesso li hanno inghiottiti e rigettati sulle spiagge. Corpi senza più vita e senza più speranze.



Ma chi ce la fa, con il giubotto salvavita avvolto intorno al corpo in maniera non del tutto ortodossa, arriva sulle spiagge di Lesbos, di Kos, talvolta naufraga a Rodi. Comunque festeggia, si commuove, piange. E prima di crollare a terra per la stanchezza, prima di dormire per qualche ora coperto dai giornali o da coperte di fortuna, tira fuori lo smartphone gelosamente custodito perché non si bagnasse durante il viaggio.



Uno smartphone che non è più uno status symbol o un lusso, ma che si è trasformato in un bene di prima necessità, nel bagaglio – spesso l’unico - che può contenere la propria vita passata e che conterrà quella futura. Quasi un oggetto feticista, immaginifico che fino a quel momento ha contenuto foto che raccontano di case distrutte, di campi profughi sovraffollati, di viaggi su barche di fortuna e che ora, finalmente, può essere utilizzato per un sorridente ritratto di gruppo, un selfie come si chiamano ora.

Può finalmente essere utilizzato per la foto.



Quella da inviare ai parenti rimasti indietro - in Siria o nei campi profughi di Turchia, Giordania, Libano, per rassicurarli -, quella che li vede sorridere dopo giorni di stenti e di fatica, le mani che fanno il tradizionale segno della vittoria o quello, più calcistico e adolescenziale, del cuore. Quella da riguardare nei giorni successivi, quando la vita tornerà di nuovo dura, la strada in salita, i campi temporanei di accoglienza sovraffollati o senza servizi igienici, la paura di essere rimandati indietro, di non riuscire ad arrivare alla propria meta, al proprio sogno: la libertà, una vita normale, senza più guerre e sofferenze.

Uomini, donne e bambini conservano la propria vita, la propria storia, il proprio paese in quegli smartphone. Un paese cui vogliono tornare perché – come ha detto il bambino intervistato alla stazione di Budapest nei giorni più caldi della crisi umanitaria dei profughi – “se voi fate finire la guerra, noi torniamo a casa. Non desideriamo altro”.



E le immagini contenute nei pochi giga di memoria di quegli smartphone comprati in un’altra epoca, in un’altra Siria o avuti da organizzazioni umanitarie per garantire la comunicazione tra gruppi e famiglie, sono tutto ciò che hanno. Possono abbandonare i giubotti salvavita, che pure li hanno aiutati ad arrivare in Grecia – sulla spiaggia, ma non possono separarsi dal testimone fedele della loro vita, l’unico che ora – al di là del mar Egeo – ricorda a loro (e agli altri) chi erano e chi, comunque, continueranno ad essere: siriani costretti ad abbandonare una terra bellissima e che hanno amato profondamenti.