Due anni fa la strage/La libertà (e i suoi abusi) riscritta dopo Charlie

di Marina Valensise
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Venerdì 6 Gennaio 2017, 00:07 - Ultimo aggiornamento: 00:09
Sono passati due anni dalla strage terroristica di matrice islamista che decimò la redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo a Parigi e dall’attentato al supermercato Cacher che seguì 48 ore dopo. 17 persone persero la vita. Oggi, una lapide nella rue Bonaparte ricorda dove visse per anni il vignettista Georges Wolinsky, un’altra lapide segnala lo stabile che ospitava la redazione del settimanale satirico, trasferito ormai in una sede segreta, protetto da vetri blindati e guardie armate, e un’ultima lapide sul boulevard Richard Lenoir indica il luogo esatto dove i fratelli Kouachi freddarono come un cane il poliziotto Ahmed Merabet. Per ricordare l’eccidio del 2015, il sindaco di Parigi ha preso parte a un sobria cerimonia in silenzio. E Charlie Hebdo è uscito in edicola con una vignetta molto amara in prima pagina e un numero speciale intitolato: 2017, finalmente la fine del tunnel, dove il tunnel è quello di un kalashnikov puntato da un jihadista barbuto contro le tempie di un signore coi capelli rossi, vagamente evocativo del neo presidente americano Donald Trump.

Il clima è cambiato, però. In fatto di terrorismo islamico, di guerra asimmetrica dei soldati dell’Isis contro cristiani, pagani e infedeli, in Europa, nessuno ha più tanta voglia di scherzare. Se è difficile chiamare le cose col loro nome, è ancora più difficile accettare di dover praticare la libertà di opinione in un luogo segreto tenuto blindato e ancora di più è l’essere costretti a dover limitare la libertà di espressione.

Ma dopo gli attentati di Parigi del gennaio 2015, seguiti in novembre dall’eccidio del Bataclan, dalla strage allo Stade de France e per le strade tra la Bastiglia e la République, e poi di nuovo dall’attentato di Nizza il 14 luglio 2016 e da quello di Berlino alla vigilia di Natale, è stata ferita anche la nostra libertà di opinione, la nostra libertà di espressione e soprattutto la libertà di satira.

C’è chi s’ostina a sostenere che libertà va difesa al prezzo della vita, e va bene. L’ideale, e perché no un tocco di eroismo, aiutano a vivere. Anche se la famosa frase «non sono d’accordo con quello che voi dite, ma sono pronto a battermi fino alla morte perché voi abbiate diritto di dirlo» non appartiene a Voltaire, bensì all’autore di un libro inglese uscito ai primi del Novecento (S.G.Tallentyre, alias Evelyn B.Hall The Friends of Voltaire, Londra 1906), dopo l’emozione della strage di Charlie Hebdo, dopo l’identificazione collettiva, previo spilletta al petto «Je suis Charlie», abbiamo tutti capito che l’abuso della libertà di espressione che sconfina nell’insulto, nell’offesa, sino a rappresentare un attentato dell’ordine pubblico, andrebbe utilmente evitato. Abusare della libertà vuol dire indebolire la stessa libertà, non rafforzarla. E dare libero sfogo alla libertà di satira senza valutarne le conseguenze e i rischi possibili, lungi dal rafforzare la convivenza e la civile tolleranza rischia di contribuire a alzare muri di incomprensione, alimentando l’odio e l’insicurezza di tutti.

Ma la satira non è tale se non è libera di satireggiare su tutto, obiettano i vignettisti come l’amico Vincino. Va difesa anche se ti fa venire il voltastomaco, anche se irride il profeta Maometto, per non parlare dei simboli cristiani, dal momento che il vilipendio alla religione è una fattispecie derubricata persino dalle gerarchie vaticane. E stendiamo un velo pietoso sulla satira contro le vittime del terremoto in Centro Italia, infilzate dall’humor nero dei disegnatori di Charlie Hebdo attraverso il paragone con penne all’arrabbiata, gratinate e lasagne….

Personalmente, non sarei più tanto sicura di dover ammettere anche l’inammissibile. Coi tempi che corrono, ci sono rimaste poche certezze. Primo, siamo sotto attacco e dobbiamo esserne consapevoli. Secondo, non possiamo più dire, pensare e fare impunemente tutto quello che ci salta in mente, senza valutarne le conseguenze. Terzo, se non vogliamo censure ma vogliamo essere liberi, dobbiamo cercare di essere innanzitutto responsabili, e ritrovare perciò un minimo di decenza, che vuol dire rispetto e attenzione per la sensibilità di chi la pensa diversamente da noi. Ridere e fare ridere a queste condizioni è una bella sfida, lo so.
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