Libero commercio/ L’accordo che verrà tra Cina e Stati Uniti

di Romano Prodi
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Domenica 5 Marzo 2017, 00:05
Negli ultimi mesi non solo siamo stati testimoni di cambiamenti politici senza precedenti ma si è anche assistito ad un rovesciamento radicale delle politiche commerciali dei due grandi protagonisti della politica mondiale. Gli Stati Uniti si sono trasformati in paladini del protezionismo e la Cina si è presentata al vertice di Davos come il leader mondiale del libero commercio. Molto si è detto e scritto sulle ragioni di politica interna che hanno spinto Trump a pronunciarsi a favore del protezionismo ma non abbastanza sulle ragioni che spingono la Cina a vedere il proprio futuro economico sempre più fondato sul libero commercio nonostante la tumultuosa crescita dei salari interni verificatasi negli ultimi anni.

Infatti, secondo i dati di Euromonitor recentemente riportati dal Financial Times, i salari orari del settore manifatturiero cinese si sono triplicati negli ultimi dieci anni e ora non solo sono superiori a quelli del Brasile e del Messico ma hanno superato i due terzi del costo orario di due paesi dell’Unione Europea come Portogallo e Grecia. Non si hanno inoltre segnali che l’aumento del costo del lavoro cinese abbia un prevedibile termine. Si tratta di un cambiamento radicale: basta pensare che trent’anni fa si calcolava che il costo del lavoro cinese fosse un quarantesimo del costo italiano. Tutto questo ha provocato una doppia trasformazione.

Da un lato ha spinto verso l’alto gli investimenti e il ritmo di innovazione cinese, causando un aumento della produttività superiore alla crescita dei salari. Da un altro lato ha provocato un crescente trasferimento delle produzioni più semplici e ad alto contenuto di mano d’opera verso le aree con costi del lavoro più bassi, come i paesi asiatici circostanti fino ad arrivare all’Etiopia.

La Cina si trova quindi sempre più a competere con le produzioni dei paesi industriali più avanzati, ed in particolare modo con gli Stati Uniti e l’Unione Europea ma, ancora più di loro, ha bisogno di esportare per bilanciare l’impressionante quantità di importazioni di cui ha necessità. La Cina può infatti contare solo sul 7% delle terre coltivate del mondo ma deve nutrire il 20% della popolazione del nostro pianeta ed è incredibilmente scarsa di fonti di energia e di materie prime.

Se vuole continuare a crescere la Cina ha più di ogni altro bisogno di importare e, quindi, di esportare, anche perché la crescita dei consumi interni procede a ritmo più lento del previsto: le mancanze del sistema pensionistico e del sistema sanitario pubblico spingono infatti i cittadini a risparmiare più che a consumare. Nello stesso tempo il ritmo degli investimenti in infrastrutture non può continuare a procedere col ritmo spaventoso avuto in passato, non solo in conseguenza del forte livello di indebitamento del governo, ma anche per l’eccesso di capacità produttiva generato in molti settori industriali come quello del cemento o dell’acciaio.

Le esportazioni saranno quindi strategiche ancora a lungo per il futuro della Cina ma esportazioni diverse. Nei settori concorrenziali saranno meno fondate sui prezzi e invaderanno produzioni sempre più sofisticate e tecnologicamente avanzate. Anche gli investimenti pubblici prenderanno tuttavia sempre più la via dell’estero. La grande strategia della Via della Seta (One Belt One Road) è solo in parte dedicata all’aumento del commercio con l’Europa ma si sta concretizzando soprattutto in crescenti investimenti in infrastrutture, opere pubbliche e poli industriali nei paesi confinanti, fino ad arrivare al Pakistan all’Iran.

Il tutto accompagnato naturalmente da investimenti produttivi e dall’acquisto di imprese nei paesi industriali più avanzati, non solo con lo scopo di penetrare più facilmente in quei mercati ma, soprattutto, per affrettare l’acquisto delle tecnologie necessarie a mettere in atto la strategia di ascesa nel livello tecnologico. Per tutti questi motivi non dobbiamo stupirci che l’unico grande paese del mondo ancora comunista sia diventato il paladino del libero commercio.

Più complicato è invece spiegare come la nuova presidenza americana possa mettere in atto le restrizioni alle importazioni dalla Cina, anche se quest’obiettivo è stato uno degli elementi fondamentali della campagna elettorale di Trump.

Gli investimenti e il decentramento delle produzioni delle imprese americane in Cina hanno infatti raggiunto un livello così pervasivo che un cambiamento di strategia provocherebbe danni incommensurabili al sistema produttivo americano. I casi di progettazione in Usa e fabbricazione in Cina riguardano ormai tutti i settori, da quello dell’elettronica alla componentistica meccanica, con prospettive di intensificazione in campi ancora più delicati come quello aeronautico. Una guerra ad oltranza vedrebbe tutti perdenti, ma ad essere danneggiati sarebbero soprattutto gli Stati Uniti.

Oggi appare più probabile un compromesso, per evitare uno scontro fatale e per cercare di porre regole e limiti alla globalizzazione. Questo compromesso conviene infatti a tutti e due i giganti dell’economia e della politica mondiale. In fondo anche la campagna elettorale americana è ormai un ricordo.

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