La polveriera Medio Oriente mette a rischio il ruolo Nato

di Giulio Sapelli
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Venerdì 22 Luglio 2016, 00:40
Seconda più grande forza armata nella Nato con più di un milione di militari, la Turchia è uno dei cinque Paesi membri che posseggono lo status di attore della condivisione nucleare dell’Alleanza assieme a Belgio, Germania, Italia e Paesi Bassi. Ben 90 bombe B61 sono ospitate presso la base aerea di Adana, di cui 40 sono assegnate direttamente all’aviazione turca. Per avere un’idea dell’impegno di Ankara nella Nato, basti ricordare che dal 1998 attua un programma ventennale di modernizzazione dell’esercito del valore di 160 miliardi di dollari.

Ma ciò che nessuno ha sottolineato in questi tumultuosi giorni è che da sempre i governi turchi, laici o islamisti, sviluppano una politica fortemente nazionalista anche nei confronti della Nato stessa. Sin dal dopoguerra la Turchia ha infatti perseguito una politica di continua trattativa con i comandi dell’Alleanza, rivendicando di fatto uno statuto speciale in virtù del suo porsi geograficamente tra Europa e Medio Oriente, segnando il passo di ogni penetrazione dell’Occidente verso Oriente e viceversa, come dimostrano i contatti sempre più stretti che lo stesso Recep Erdogan ha instaurato con Pechino, oggi impegnata nella costruzione delle infrastrutture della cosiddetta nuova “via della seta”, che dalla costa cinese meridionale giunge sino in Francia e Germania, il cuore dell’Europa.

Questa negoziazione permanente spiega anche perché la Turchia può mantenere indisturbata 36.000 militari nel nord di Cipro, l’isola occupata nel 1974 durante l’ ultimo governo ataturkiano di Bulent Ecevit. Un’occupazione che la repubblica cipriota e la comunità internazionale considerano altamente illegale, al punto che sulla questione è intervenuta più volte l’Onu. Nonostante ciò, proprio per la sua naturale posizione strategica, Ankara partecipa attivamente a forze di peacekeeping internazionale e il suo ruolo è cresciuto a dismisura durante la guerra in Siria. Peraltro, se si considera che già prima dell’esplosione della crisi mediorientale, nel 2006 la Turchia dispiegò una forza di peacekeeping composta da pattugliatori della Marina e da circa 700 truppe di terra come parte della Forza di interposizione in Libano (Unifil) sulla scia del conflitto israelo-libanese, meglio si comprende il ruolo che oggi svolge nell’equilibrio instabile mediorientale, soprattutto dopo la composizione del conflitto con la Russia. Ciò farebbe pensare che Erdogan e il suo partito stiano meditando un cambiamento del sistema di alleanze, mettendo a repentaglio la tenuta stessa della Nato. E spiegherebbe l’ondata di epurazioni nell’esercito e nello Stato, evidentemente preparata da tempo.

La radice del problema odierno risiede nel fatto che nel 1952 la Turchia entrò sì a far parte della Nato, ma ciò non impedì la progressiva delaicizzazione della nazione, a cui i militari - e gli Stati Uniti - non seppero opporre altro che tre colpi di Stato sempre più sanguinosi (1960-1970-1980). Ciò che sta accadendo oggi in Turchia altro non è che il progressivo devertebrarsi di uno Stato che fu per secoli il punto archetipale, con l’Egitto, prima dell’Impero Ottomano e poi del sistema di equilibrio dei poteri che si andò delineando volta a volta dopo la Grande Guerra e con la fine del regime ataturkiano.

Non si sbaglia se si pensa che la struttura economico-sociale turca è alla base di un cambiamento strategico già in nuce, e che con l’ultimo golpe è venuto pienamente alla luce. La nuova borghesia urbana delle medie città turche e il nuovo proletariato anatolico frutto della liberalizzazione che fu promossa dagli stessi militari negli anni Novanta, era infatti di orientamento musulmano e conquistò le città non urbanizzandosi culturalmente ma piuttosto “contadinizzando“ religiosamente le città. Mai eliminati dalla modernizzazione ataturkiana, gli imam guidarono spiritualmente la fiumana di contadini che si riversò in una Istanbul che andò così trasformandosi, fino a eleggere un sindaco di chiara ispirazione islamica: Erdogan, che poi divenne premier. Con la conquista del potere politico, il nuovo leader inizia una decisa lotta che ha come fine lo smantellamento del potere dei militari unitamente al progressivo indebolimento di quello della magistratura che si era autoriprodotto con tenacia e stretti legami massonici.

Potrò sbagliarmi, ma nonostante le scosse di questi giorni Erdogan rimarrà nella Nato, perché il suo vero obiettivo è ridimensionare il ruolo degli Stati Uniti e dell’Europa in Turchia, cogliendo l’occasione del risveglio fondamentalista per rinnovare i bassi quadri dell’esercito con reclute a lui fedeli e sfiorate dalla presenza del Daesh. Sarà così più facile inseguire il sogno della Grande Turchia che Mustafa Kemal Ataturk non fu in grado di affermare e che ora, sotto la bandiera del Profeta, si prospetta come raggiungibile. Di qui la consapevolezza, sebbene tardi raggiunta, che Bashar al-Assad vada risparmiato, non disgregando ulteriormente la Siria.

La Nato - ed é questo il punto essenziale che spiega l’attuale crisi turca - non riesce più a svolgere quella funzione unificante dello Stato che un tempo era stata in grado di assicurare. E ciò in primo luogo per lo sfaldarsi progressivo della politica estera americana, che proprio in Medio Oriente oggi ha il punto più basso della sua incapacità di egemonia e di dominio insieme. Sicché le conseguenze del golpe possono essere gravi, di là della reale volontà di Erdogan. La pressione russa è del resto sempre più forte e si combina con l’indebolimento delle alleanze Usa con gli Stati sunniti della regione, Arabia Saudita e Qatar in testa. Mosca vede così accrescere il suo ruolo, non a caso intensifica le relazioni con l’Egitto e con i sauditi mentre rafforza la potenza iraniana che, opponendosi ai sauditi, ne limita il potere d’intervento nell’aerea.

In questo scacchiere si assiste dunque al ritorno della politica di potenza esistente precedentemente alla Grande Guerra e all’avvento dell’Urss, con la Turchia guidata da forti spinte autonomiste svincolate dalla fedeltà atlantica e orientata a costruire il nuovo profilo strategico mediorientale che di nuovo si gioca sul tavolo delle tre grandi potenze spirituali dell’area: gli arabi sunniti, i persiani sciti e i turchi in via di crescente islamizzazione, mentre la Nato appare sempre più impotente dinanzi a questo ritorno della storia.
 
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