La direttrice della Cia/ Le donne ai vertici e la doppia morale

di Maria Latella
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Giovedì 15 Marzo 2018, 00:04
Un dilemma morale si propone forse per la prima volta in maniera vistosa. Un dilemma morale si propone alle femministe e, in ogni caso, alle donne che credono, rocciosamente, nella parità di genere. Fino a che punto si può gioire per la promozione di una donna ai massimi livelli del potere, se questa stessa donna ha usato, nel suo settore, lo stesso determinato cinismo di un uomo?

Dilemma secondario, più legato al momento politico americano: si può esultare per la prima donna direttore della Cia se a nominarla è un presidente che, come Donald Trump, ha fama di collocare le donne su un piano diciamo decorativo, eccezion fatta per la figlia Ivanka e per la dimessa portavoce Hope Hicks? Provo a chiedere un’opinione su Gina Haspel, la prima donna a capo della Cia, alle americane del futuro, alle studentesse della prestigiosa Trinity School di New York, scuola elitaria che prepara alle universita’ della Ivy League. Fifth Avenue, metà mattina, Mentre sui rotocolor scorre la pubblicità di un grande brand della moda europea “Women are ambitious”, una cinquantina di ragazzi tra i sedici e i diciotto anni scandisce slogan davanti alla Trump Tower. Ce l’hanno col presidente degli Stati Uniti perché non ha ancora limitato l’uso delle armi. I cartelli dicono che non vogliono fare la fine dei loro coetanei uccisi a scuola, a Parkland, in Florida, da un Nicolas Cruz, che a 19 anni poteva disporre di un fucile. Sono, appunto, allievi della Trinity School, prestigiosa scuola privata newyorkese, e nel gruppo le ragazze sono tante, pronte a dire la loro. Ieri il presidente Trump ha nominato Gina Haspel, la prima donna a capo della Cia. Che ne pensate? chiedo alle combattive studentesse. «Buon per lei - risponde la prima - Ma questo non cambia le cose. Trump non ha ancora dato risposte su come si comporta con le donne». Non lo dicono, ma si capisce che pensano alla vicenda Stormy Daniels, la pornostar che avrebbe avuto rapporti con Trump. «E’ giusto che una donna raggiunga una posizione cosi importante, ma francamente ci sono cose che mi preoccupano di più in questo momento» mi dice un’altra.

Gli studenti vanno via, diretti verso un’altra Trump Tower e un’altra protesta indirizzata all’uomo che intorno a Central Park ha seminato torri col suo nome. Vanno via guardati con simpatia dalle eleganti signore che entrano da Bergdorf and Goodman, il più lussuoso department store di New York. Perché New York la pensa come loro. Gina Haspel è la prima donna a capo di uno dei centri del potere mondiale, quella Cia dalla quale George H. Bush, il presidente padre, spiccò il volo verso la Casa Bianca. Ma a nominarla è stato Trump. E questo crea qualche problema anche alle superprogressiste newyorkesi abituate da decenni a gestire il potere e a lottare per incrementarlo. Il dilemma morale si propone forse per la prima volta sui social media e nelle dichiarazioni ai quotidiani. Apprezzare il fatto che una donna prenda il posto che è stato del mitologivo Allen W. Dulles, di James Schlesinger, Leon Panetta, per citare solo i più noti in Europa.

Il dubbio si legge anche nelle dichiarazioni della senatrice Dianne Feinstein, bandiera democratica della California e già presidente del comitato Intelligence del Senato americano. Fervente sostenitrice della parità di genere, ora a proposito della nomina di Gina Haspel a capo della Cia dice: «C’è una differenza tra l’essere numero due e il diventare numero uno». I media americani dell’area liberal ricordano che la neo direttora della Cia, 61 anni molti dei quali trascorsi al servizio del suo Paese, 17 anni fa fu coinvolta nel programma avviato dall’Intelligence americana subito dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Un programma che, pur di ottenere informazioni dai sospetti terroristi, prevedeva atroci forme di tortura applicate nel corso degli interrogatori. Incluso il micidiale ricorso al “waterboarding”. 

Non è chiaro quanto e come Gina Haspel sia stata parte di quell’oscura pagina in uno dei più drammatici momenti della recente storia americana. Quel che è certo è che glielo chiederanno in lungo e in largo, durante il processo attraverso il quale il Senato dovrà decidere se confermare o no la nomina di Haspel a direttore della Cia. Lo annuncia il repubblicano senatore John McCain, lui stesso sottoposto a tortura quando fu fatto prigioniero nella guerra del Vietnam, Lo conferma Roger Eatinger, ex avvocato del centro antiterrorismo della Cia: «Non invidio quel che Gina Haspel dovrà subire nella fase della conferma. E’ la prima volta in cui si potranno porre domande su un programma di intelligence finora rimasto segreto» dice Eatinger al New York Times.

Così, passa in secondo piano il fatto che sia una donna ad assumere il massimo potere nella più importante agenzia dello spionaggio. La più famosa del mondo. Ci sarebbero state fanfare e squilli di tromba se a nominarla fosse stato un presidente diverso da Donald Trump? Se a nominarla fosse stato Obama nonostante il suo passato? Certo, il suo presunto coinvolgimento nei sistemi adottati subito dopo l’11 settembre, è un aspetto oscuro sul quale il Senato avrebbe investigato comunque, chiunque fosse stato coinvolto nelle torture e poi nominato al vertice della Cia, ma, ricorda Ralph Peters, un ex uomo dell’Intelligence, vi siete dimenticati in quale stato di disperazione eravamo precipitati dopo gli attentati alle Torre Gemelle? Vi siete dimenticati le accuse di incapacità rivolte all’intelligence Usa? Oggi ci sentiamo più sicuri, scrive Peters sul New York Post, e possiamo discutere su quanto fosse opportuno ricorrere a strumenti come kl “waterboarding”. Ma allora, diciassette anni fa, la pressione era tale da giustificare qualunque mezzo. «Gina Haspel ha imparato dai suoi errori. Sarà un capo della Cia coscienzioso» assicura Amy Jeffress, un’altra donna che ha avuto ruoli di rilievo nel Dipartimento di giustizia.

Difesa dai colleghi dell’intelligence, ovviamente apprezzata dal presidente Trump che l’ha nominata, la neo direttora della Cia Gina Haspel riceve un trattamento agrodolce da quella stessa senatrice democratica Dianne Feinstein che ben conosce le asprezze della politica e l’importanza dell’intelligence nel ricostruire la fiducia degli americani, cosi scossa dopo l’11 settembre. Non ce la, Dianne Feinstein, a scagliarsi contro Gina Haspel, con la quale ha condiviso infinite riunioni: «E’ stata una buona vicedirettore della Cia. E sembra avere la fiducia dei suoi colleghi, il che è una buona cosa» ammette la senatrice della California.
Ma qui si ferma. Perché in una fase in cui il partito democratico analizza ogni minimo dettaglio che possa ulteriormente indebolire la presidenza Trump. In una fase in cui perfino un’elezione locale come quella di martedi scorso in Pennsylvania tiene svegli gli old Democrats, in questa fase, insomma, se Donald promuove una donna a capo della Cia non c’é niente da festeggiare. Proprio no. Perciò sui social media si susseguono da un lato le provocazioni dei trumpiani che stuzzicano “il silenzio delle femministe” e dall’altro le reazioni di quelle che, come Mona Eltahawy, rispondono «La tortura non è meno sbagliata per il fatto che a ordinarla sia una donna».

Tutto vero. Ma scommettiamo che se, invece di chiamarsi Gina, la Haspel si chiamasse John, ci sarebbe comunque qualcuno pronto ad apprezzare la maschia durezza mostrata nei momenti bui del post 11 settembre? Scommettiamo che se si chiamasse John qualcuno l’avrebbe già ringraziata per aver servito il Paese nell’ora più buia, consentendo agli altri di continuare a vivere nella luce?
 
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