La crescita mancata/L’autocritica del Fmi accende dubbi sul caso Grecia

di Giulio Sapelli
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Martedì 21 Agosto 2018, 00:14
Da ieri il popolo greco è tornato ad essere padrone del proprio destino. Dopo otto anni di misure draconiane, la Troika ha lasciato Atene con i conti più in ordine ma anche con non poche incognite. Giusto dunque porsi una domanda: davvero la Grecia, dopo otto anni di austerità pesante, è tornata a crescere? La domanda non se l’è posta il “Global forum sulla sostenibilità” di Rio de Janeiro, bensì il Fondo monetario internazionale che di fatto ha scoperchiato la marmitta dove bolle e ribolle da circa dieci anni la stessa questione: che cosa è la crescita? Come la si misura? Soprattutto, come la si ottiene? Gli interrogativi s’intrecciano e non a caso.
Se si guarda al debito pubblico, allo spread, agli indici di Borsa, la risposta appare persino banale e l’abbiamo tutti stampata in testa grazie al martellamento incessante dei corifei dell’austerità: si cresce anzitutto abbassando il rapporto debito/Pil, solo così lo spread diminuisce e la Borsa a sua volta trae ragioni per rilanciarsi. 
Ma per non vedere la realtà che quegli indicatori nascondono, occorre altresì misurare il tutto con il cosiddetto average, ossia la media della variazione del Pil rispetto all’anno prima oppure a qualsivoglia mese che si decide di indicare come punto di riferimento. Alla luce di ciò, di nuovo ci domandiamo: la Grecia sta davvero crescendo? 


Certo, sulla base dei parametri che abbiamo testé indicato non vi è dubbio che la Grecia stia crescendo rispetto allo scorso anno. Ma se alziamo il collo e guardiamo oltre “la siepe” sino, per esempio, a dieci anni or sono, il Pil misurato non come succedersi di valori mediani ma come quantità assoluta di stock di capitali e di beni materiali, ebbene il Prodotto interno greco è letteralmente crollato. 
Allora qualcosa non funziona e ha ragione il Fondo monetario a interrogarsi. Tanto più che se a questa prima ricognizione “storica” aggiungiamo i dati sull’occupazione, sui redditi da lavoro, sull’andamento del tasso di profitto capitalistico e non sulle rendite finanziarie o dei monopoli privati, ebbene non possiamo che condividere i severi dubbi della più importante e istituzionale forza di regolazione finanziaria mondiale che ha quale scopo di testimoniare e stimolare la proprio crescita. E la ragione di questa mancata crescita ha una sola spiegazione: sono mancati gli investimenti, tanto pubblici quanto privati. Questa è la sostanza del problema. E ancora: la crescita per essere reale, ossia sociale, fatta di carne e di anima di coloro che producono, deve unirsi allo sviluppo, perché l’una non si crea senza l’altro e viceversa. È questa interconnessione che l’austerità, quale politica economica, ci ha fatto dimenticare. D’altro canto, i 288 miliardi fatti affluire ad Atene attraverso prestiti internazionali quale “premio” per la sottomissione alla dittatura della Troika, sono in gran parte finiti a saldare i debiti contratti in precedenza con banche e istituzioni finanziarie straniere e non invece destinati allo sviluppo dell’economia greca, come sarebbe stato giusto per avviare un ciclo di espansione virtuosa.

Questa vicenda sia di insegnamento all’Italia: senza nuovi e importanti investimenti non recupereremo l’immenso stock di capitale distrutto dalla crisi del 2007 per effetto della politica economica imposta dalle burocrazie europee sollo la guida della Germania. Può sembrare paradossale, visti i fondamentali del nostro Paese, ma è solo invertendo la marcia che l’Italia eviterà di fare la fine della Grecia. La tragedia di Genova, con il suo dolente carico di vittime innocenti, merita severe riflessioni su ciò che non è stato fatto e che invece si poteva fare, peraltro con grande beneficio per l’economia nazionale e l’occupazione.

A sua volta l’Europa dovrebbe fare autocritica, come responsabilmente sta facendo il Fondo monetario, sul modo in cui ha gestito una crisi, quella greca, che se presa in tempo - e non furono poche le voci che si levarono a favore delle alternative - si sarebbe potuta risolvere con un impegno complessivo di 50-60 miliardi, destinando allo sviluppo gli altri 220 miliardi. Per questo lasciano basiti le irritate dichiarazioni diffuse ieri dal commissario europeo per gli Affari economici, Pierre Moscovici, sulla flessibilità finanziaria che la Commissione Ue ha già concesso al nostro Paese nell’ambito di una contabilità che definire modesta - con 23 miliardi tutto compreso si può impostare al massimo un quarto delle grandi opere necessarie all’Italia - significa essere ottimisti: evidentemente gli echi dell’autocritica del Fondo monetario non sono ancora giunti a Bruxelles. 
L’auspicio è che la ripresa di settembre possa riaccendere i canali di comunicazione con il mondo che la capitale belga ha evidentemente interrotto per le ferie estive.
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