Juncker-Renzi, dietro lo scontro il braccio di ferro Roma-Berlino

Juncker-Renzi, dietro lo scontro il braccio di ferro Roma-Berlino
di Alberto Gentili
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Sabato 16 Gennaio 2016, 09:11 - Ultimo aggiornamento: 18:04

Lo scatto di nervi di Jean-Claude Juncker a palazzo Chigi non era stato messo in conto. Matteo Renzi tutto si aspettava tranne che il mite presidente della Commissione andasse alla guerra. Tant'è che dall'entourage del premier filtra il sospetto che dietro la reazione di Juncker ci sia «lo zampino della Merkel». A maggior ragione Renzi in serata, parlando con i suoi, ha confidato: «Non mi faccio impressionare, né intimidire da certe tirate. La nostra linea resta la stessa: l'Europa va cambiata e la cambieremo. E' arrivato il momento di voltare pagina anche a Bruxelles. Siamo stufi che a comandare siano sempre e soltanto i soliti noti». Traduzione: Berlino.

Parole che rivelano che la battaglia - quella vera - non è tanto tra Juncker e Renzi, quanto tra Merkel e Renzi. Non a caso sia il ministro Pier Carlo Padoan, che il sottosegretario all'Europa Sandro Gozi, usano parole di pace con il presidente della Commissione. Però entrambi scandiscono il sostantivo «cambiamento». E nel gergo renziano ”cambiamento” significa riuscire a imporre una «nuova politica economica improntata sulla crescita e non sul rigore contabile» imposto dalla Germania. «Perché, come dimostrano gli Stati Uniti, quando si punta su politiche espansive il Pil cresce. E alla grande. Dove invece, come in Europa, si guardano solo gli zero virgola dei parametri, la crescita stenta, boccheggia».

FLESSIBILITÀ DA 3,2 MILIARDI
Non si tratta di una discussione teorica. Né tantomeno di filosofia economica. Certo, Renzi attacca la Commissione e l'Europa «germanocentrica» perché è convinto («dopo ciò che è successo in Francia e Polonia, dove hanno vinto i partiti euroscettici»), che questa linea aggressiva e non arrendevole paghi elettoralmente: in giugno in Italia vanno al voto le principali città, Roma, Napoli, Milano incluse. E il Pd rischia grosso.

In gioco però ci sono soprattutto soldi. Ben 3,2 miliardi. Quello 0,2% di Pil da spendere sotto la voce ”flessibilità” per la clausola ”sicurezza” (lotta al terrorismo) o ”eventi eccezionali” (l'ondata migratoria) che Renzi e Padoan hanno inserito nella legge di stabilità, fissando il rapporto deficit-Pil al 2,4%. Ebbene, a dispetto delle previsioni, la Commissione si è irrigidita. Ha rinviato ad aprile il giudizio finale, lasciando il governo italiano nell'incertezza. E ha fatto filtrare la minaccia che invece di concedere la flessibilità richiesta, possa imporre una procedura per «scostamento significativo sul deficit», anche in ragione del rallentamento della crescita italiana.

«Questo è inammissibile», sostengono a palazzo Chigi, «noi non chiediamo favori o regali, ma solo il rispetto delle regole che devono valere per tutti. E, una volta per tutte, la smettano di far passare la flessibilità come una concessione». Per dirla con Padoan: «L'Italia ha diritti equivalenti a quelli degli altri e intende farsi ascoltare».

IL VETO ANTI-TEDESCO
Per farsi ascoltare, Renzi gioca su più tavoli. Usa tutte le fiches e cartucce a disposizione. Ad esempio l'Italia ha posto il veto alla concessione di 3 miliardi di aiuti alla Turchia per fronteggiare l'emergenza dei profughi siriani. Spiegazione che filtra da palazzo Chigi: «Quei soldi devono essere tirati fuori dal bilancio comunitario e non vanno ripartiti tra i singoli Stati. Anche perché aiutare la Turchia a tenersi gli esuli siriani, significa essenzialmente togliere la Merkel dai guai, visto che l'ondata di profughi è diretta verso la Germania. E considerata l'aria che tira non abbiamo alcuna intenzione di aiutare Berlino...».

Un approccio del tutto inedito per Roma. Un approccio, assertivo se non addirittura aggressivo, che va a braccetto con la strategia euro-critica scelta da Renzi in vista delle elezioni. E che il premier nelle ultime ore ha spiegato così: «Fino a qualche tempo fa, i nostri presidenti del Consiglio avevano un problema reputazionale. Promettevano mari e monti ma poi non facevano nulla. Noi invece abbiamo fatto la riforma del mercato del lavoro e quella della Pubblica amministrazione. Abbiamo varato la legge elettorale e la riforma costituzionale che cancella il bicameralismo paritario, solo per citarne alcune. A questo punto non prendo ordini e ho tutto il diritto di alzare la mano e dire: ”così non va”. Di sicuro non vado a Bruxelles non il cappello in mano».

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