Viaggio nel Golan, dove Israele salva la vita ai nemici siriani

Viaggio nel Golan, dove Israele salva la vita ai nemici siriani
di Gianluca Perino
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Mercoledì 10 Febbraio 2016, 11:34 - Ultimo aggiornamento: 11 Febbraio, 15:23

dal nostro inviato SAFED (Israele) - «Il futuro della Siria? Non c'è. Sarà sempre peggio». Hassan è un combattente dell'esercito della libertà, uno dei gruppi di ribelli che si oppongono al regime di Assad. Ha poco più di venti anni e uno sguardo che tradisce il peso delle dure esperienze già vissute; una bomba sganciata da un aereo russo gli ha fatto saltare la gamba sinistra e procurato gravi ferite anche alla destra. Nel suo futuro niente lavoro e una sedia a rotelle. O, se sarà fortunato, una protesi pagata dalle ong che stanziano fondi per aiutare le vittime della mattanza in Siria.


Da un mese Hassan è ricoverato assieme ad altri siriani al Ziv Medical Center, un ospedale israeliano di frontiera che si trova a undici chilometri in linea d'aria dal Libano e a una trentina dalla Siria. Dividono la stanza con lui due ragazzi. Hanno entrambi ferite gravi: Akmed, studente di ingegneria, ha perso il piede destro per una mina e Salman, che lavorava come agricoltore, racconta di essere stato colpito da una bomba a grappolo. I segni delle schegge sulla sua gamba destra, avvolta da una specie di griglia di metallo, sono evidenti. Non è chiaro però se Akmed è Salman siano combattenti o civili.

«A noi - spiega il medico che li visita - queste cose comunque non interessano». In realtà il Ziv, dotato di 210 posti letto, era nato per garantire assistenza sanitaria ad una parte degli abitanti della Galilea. Ma poi le cose sono cambiate a causa del conflitto. «Nel 2013 l'esercito ha cominciato a portare qui i feriti - spiega Kassis Shokry, il chirurgo plastico dell'ospedale - e noi abbiamo cominciato a curarli».

Sembra una cosa scontata, ma non lo è. Almeno non dal punto di vista militare. Siria e Israele, infatti, sono due paesi tecnicamente in guerra tra loro e non si combattono soltanto grazie a un "cessate il fuoco" firmato nel 1974. Per questo, quando al Ziv sono cominciati ad arrivare i primi feriti "nemici", l'atmosfera nell'ospedale è diventata subito pesante.
«Ma in realtà - spiega Shokry - i più preoccupati erano proprio i siriani. Arrivavano qui, sedati o già sotto anestesia e quando si svegliavano e scoprivano di essere in Israele sbarravano gli occhi».

Adesso però le cose sembrano andare diversamente, tanto che alcuni di quelli già soccorsi tornano per chiudere il ciclo delle cure. Come Fawzi, 31 anni, una moglie e tre figli, finito nel mezzo di una sparatoria a colpi di kalashnikov tra due ribelli a un chilometro dal confine. I proiettili gli hanno portato via una gamba e parte del bacino, tanto da rendere impossibile anche l'impianto di un protesi.


«Ero un militare dell'esercito regolare siriano, ma poi qui sono arrivati i ribelli. Noi siriani siamo tutti vittime di questa guerra tra nazioni. Ci utilizzano per i loro comodi», spiega. Per il chirurgo che lo ha operato è una specie di miracolato. «È arrivato qui in condizioni critiche, praticamente dissanguato. Lo avevano portato al confine sul dorso di un somaro. La gamba praticamente non esisteva più». Dopo tre mesi di ricovero Fawzi è tornato in Siria. Ma ieri, a distanza di un anno, era di nuovo nel reparto di chirurgia del Ziv per sottoporsi ad un intervento: «Per me - dice - gli israeliani erano tutti nemici. Ma qui ho scoperto che mi sbagliavo».

In poco più di due anni e mezzo il Ziv Medical Center ha curato 570 pazienti siriani, la maggior parte dei quali si è presentata in ospedale con ferite molto gravi. Non è chiaro come l'esercito israeliano decida di "selezionare" quelli che si presentano al confine che passa sotto il monte Bental, nel Golan, fatto sta che negli ultimi mesi il numero delle persone ricoverate è aumentato.
«Noi - spiega Michel, paramedico 20enne che fa parte della squadra militare che soccorre i siriani - riceviamo la chiamata di emergenza e andiamo con l'ambulanza nel punto prestabilito, restando comunque in territorio israeliano. Quando ci consegnano la persona, prestiamo tutte le cure possibili e andiamo di corsa in ospedale».

Ma non si tratta sempre di soccorrere ribelli o magari possibili jihadisti. Capitano anche bambini.
«È la cosa peggiore - racconta ancora Michel - qualche tempo fa è arrivato un piccolo di otto anni in gravi condizioni. Aveva lo sguardo terrorizzato, io gli ripetevo di stare tranquillo, che sarebbe andato tutto bene. E così è stato.
Qualche settimana dopo sono andato a trovarlo in ospedale. Stava meglio e la mamma che era con lui mi ha ringraziato. Posso salvare delle vite. Ecco perché ho scelto di venire qui
».

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