Il diritto alla vita/La sofferenza e la libertà negata

di Cesare Mirabelli
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Domenica 29 Aprile 2018, 00:05
La morte del piccolo Alfie, dopo che per diversi giorni ha combattuto per vivere  senza più la ventilazione che lo aveva sostenuto nella respirazione, consegna questa triste vicenda al dolore dei genitori e al sentimento di pietà che accomuna tutti. Ciò indipendentemente dall’opinione che ciascuno si sia formato sulla decisione dei giudici inglesi di disporre la interruzione del sostegno vitale a lungo praticato, considerato dai medici dell’ospedale di Liverpool sproporzionato per le condizioni e le attese di vita del piccolo paziente, a causa della  non nota malattia neurologica degenerativa della quale era affetto.

Ancora una volta è l’immagine di un bambino sofferente ad imporre all’attenzione generale domande di fondo sulla vita e sulla morte, sulla malattia e sulle cure, sul sostegno vitale e sugli atti terapeutici  che debbono o non debbono essere praticati, nel concreto interesse del paziente e con il consenso informato suo o di chi ha la responsabilità di esprimerlo. Si intrecciano principi giuridici, regole di deontologia medica, condizioni e volontà della persona, attese dei familiari, disponibilità ed efficacia delle terapie per il recupero della salute o comunque  per il mantenimento delle condizioni di vita, garantendo in ogni caso la dignità della persona. In ciascuno di questi temi non mancano spazi nei quali si manifestano sensibilità e valutazioni diverse, le quali spesso rispecchiano differenti orientamenti ideali o impostazioni che prevalgono nella cultura di fondo di ciascun paese.

La vicenda del piccolo Alfie offre un chiaro esempio di questa diversità  di prospettive, sia per quanto riguarda le condizioni di vita, e su come e da chi possano essere qualificate di inutile sofferenza tanto da rendere preferibile la morte, sia sulla sottrazione ai genitori della potestà di valutare al meglio l’interesse del loro bambino. Nella visione  seguita dai giudici di Liverpool la stessa respirazione assistita era causa di sofferenza e avrebbe determinato condizioni di vita intollerabili e senza speranza, giustificando un “lasciar morire”, che si è  manifestato piuttosto come un “far morire” interrompendo quell’assistenza delle apparecchiature che consentiva di vivere.  

Sullo sfondo la valutazione della vita, e del suo valore, secondo la “qualità” con la quale si esprime, e che dovrebbe consentire la prospettiva di una vita di relazione. Verrebbe da chiedersi se questa valutazione non sia del tutto soggettiva, e se comunque non vi fosse già una intensa e reciproca relazione tra i genitori e il loro bambino, che quest’ultimo era in grado di percepire quale che fosse la sua condizione di salute. E qui l’altro tema. L’interesse del bambino non trova nei genitori naturale valutazione e legittima espressione ? Era così irragionevole la loro pretesa di assicurare la continuità delle modalità di cura sino ad allora prestate al loro figlio ? Un intervento autoritativo ha allontanato, anziché favorito, il colloquio, la condivisione delle cure,  la necessaria alleanza tra i medici ed il paziente e in questo caso i suoi genitori.  

Una prospettiva ancorata al nostro sentire comune avrebbe potuto portare a soluzioni diverse, che trovano espressione anche nella recente legge sul consenso informato e sulle  disposizioni anticipate di trattamento medico. La “sofferenza”, che in realtà ogni infermità comporta, implica la percezione di un dolore che la legge prevede sia fronteggiato con le appropriate misure terapeutiche. Inoltre, se la prognosi è infausta, è esclusa ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure ed il ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati,  mentre  si prevede il sostegno e l’accompagnamento sino alla morte naturale, ricorrendo se necessario alla sedazione palliativa profonda.

Rimane un curioso  argomento. Al piccolo Alfie era stata concessa la cittadinanza italiana, come strumento di protezione diretto anzitutto ad agevolare il suo trasferimento a Roma per essere preso in cura dall’ospedale pediatrico Bambin Gesù. Sarebbero possibili accertamenti su questa vicenda da parte della giustizia italiana ? Il codice penale prevede che un delitto per il quale la legge italiana prevede una pena della reclusione superiore  ad un anno, commesso all’estero in danno del cittadino,  è punibile secondo la legge italiana su richiesta del Ministro della giustizia o istanza delle persone offese. Ma è davvero difficile ammettere  questa ipotesi, se l’attività svolta all’estero consiste nell’esecuzione di quanto deciso dai giudici di quel paese.

Accantonando le questioni giuridiche, che la dimensione di questa drammatica vicenda fanno apparire un fuor d’opera, è certo che la vita e la morte del piccolo Alfie non sono state inutili, ponendo questioni che interrogano la coscienza di ciascuno di noi.   
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