Trump all'attacco della Germania:
«La Merkel sfrutta la Ue»

Trump all'attacco della Germania: «La Merkel sfrutta la Ue»
di Anna Guaita
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Mercoledì 1 Febbraio 2017, 07:53 - Ultimo aggiornamento: 09:03

NEW YORK Donald Trump ha decisamente antipatia per l'Unione Europea. Non solo ha inneggiato alla Brexit, non solo ha criticato la Nato e flirta felice con Vladimir Putin, ma adesso attacca direttamente la Germania, con toni pesanti. Ieri, attraverso le parole di Peter Navarro, del National Trade Council, l'Amministrazione ha accusato la Germania di tenere artificialmente basso il valore dell'euro per «dominare i propri partner commerciali». Anzi, Navarro ha sostento che l'euro viene trattato come «un implicito marco tedesco». Asciutta la riposta della cancelliera Angela Merkel, che ha ricordato come nessun Paese dell'Unione possa singolarmente influire sul valore della moneta comune, «che viene regolamentata dalla Bce».
 

 


CINA E GIAPPONE
Va notato che le dichiarazioni di Navarro sono venute dopo le dichiarazioni del presidente Donald Trump sulla Cina e il Giappone, accusate a loro volta di aver svalutato le proprie monete a scopo commerciale. Così il presidente ha ottenuto d'un sol colpo che sia l'euro che lo yen si siano immediatamente rivalutati nel cambio con il dollaro, una manovrina che gli torna comoda, considerato il pesante deficit commerciale americano. Ma chi è vicino al presidente spiega che Trump esprime con queste manovre anche il suo rigetto dei trattati commerciali di gruppo. Grandi trattati come il Nafta con il Messico e il Canada, o il proposto Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) con l'Europa, non piacciono a Trump, che è convinto che essi favoriscano gli altri ai danni degli Usa. Per Trump sarebbe molto meglio tornare a trattati bilaterali, nell'ovvio calcolo che la superpotenza potrebbe ottenere vantaggi maggiori quando negozia singolarmente con ciascun Paese che non con gruppi di Paesi solidali.

 

IL PUGNO DURO
Per noi europei si prepara dunque una stagione di confronto. Sappiamo già che Trump ricorre spesso al pugno duro, come sta dimostrando in questi giorni sul fronte del decreto anti-musulmani. Nonostante ripeta che non c'è volontà di discriminare contro i musulmani, il contenuto del decreto che blocca i viaggi di cittadini di sette Paesi musulmani e ferma l'ingresso dei profughi ha una connotazione così discriminante che ha già causato una frattura fra l'Amministrazione e il sistema giudiziario. Trump ha prontamente licenziato il ministro della Giustizia pro-tempore Sally Yates, una stimata giurista di carriera che era stata elevata alla posizione di viceministro da Barack Obama nel 2015. La Yates aveva ordinato agli avvocati del Dipartimento di Giustizia di non difendere il decreto, che appariva in violazione di una legge del 1965 che vieta la discriminazione di razza, religione o sesso nell'ammettere immigrati negli Usa.

IL TRADIMENTO
Trump ha licenziato la Yates perché a suo giudizio aveva «tradito il Dipartimento di Giustizia». Il bello è che quando la procuratrice della Georgia era stata confermata al Senato come viceministro della Giustizia, le era stato chiesto proprio se avrebbe avuto il coraggio di resistere al presidente. E a chiederglielo, due anni fa, era l'allora senatore dell'Alabama Jeff Sessions, oggi candidato lui stesso a guidare la Giustizia. Il voto del Senato su Sessions è stato però rallentato dalle proteste dei democratici, che vogliono che l'aspirante ministro si esprima con chiarezza sul decreto anti-musulmani.

RINVIATI E APPROVATI
Ritardato anche il voto per i candidati al Tesoro e alla Sanità, Steven Mnuchin e Tom Price, accusati di aver mentito sui propri patrimoni durante le audizioni. Invece ieri sono passati il segretario dell'istruzione Betsy DeVos, quella dei Trasporti Elaine Chao, e dell'Energia, Rick Perry. E nel pomeriggio, Trump ha anche avviato con un decreto una revisione di tutti gli uffici federali e della loro capacità di resistere a cyber-attacchi.

Intanto, nonostante il monito del portavoce della Casa Bianca Sean Spicer ad «accettare il programma o andarsene», circa 900 funzionari del dipartimento di Stato Usa hanno firmato un memorandum interno di dissenso nei confronti della sospensione temporanea dell'ingresso dei rifugiati e dei cittadini provenienti da sette Paesi islamici.