Guerre commerciali/ I nuovi muri americani favoriranno solo la Cina

di Giulio Sapelli
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Sabato 28 Gennaio 2017, 00:09
La politica commerciale degli Stati Uniti è il cavallo di battaglia di Donald Trump. È questo, unitamente al problema dell’immigrazione e dell’aborto, il cuore essenziale del cambiamento che il neopresidente vuole realizzare. Si sono scritte molte cose sul tema del commercio estero, ma a me paiono sempre troppo velate da un approccio ideologico che dobbiamo abbandonare.
Riflettiamo in una prospettiva di lungo periodo e tutto ci apparirà più convincente. Gli Stati Uniti hanno ricostruito il mondo dopo la seconda guerra mondiale non in base ai propri immediati interessi, come alcuni superficialmente affermano, ma nella prospettiva della guerra civile europea che dopo la vittoria contro il nazifascismo europeo e asiatico diveniva ancora più dura. Il problema era l’Unione Sovietica e come combatterla per difendere l’Occidente e i suoi valori. L’America scelse il commercio mondiale come principale arma strategica: l’Europa doveva divenire l’antemurale allo stalinismo grazie alla sua crescita economica, da cui sarebbe (così si credeva) scaturita un’impetuosa crescita democratica che avrebbe vinto la guerra contro l’Urss anche sul piano delle idee.
Quali strade percorrere? In primo luogo si doveva rendere più coesa l’alleanza militare ed economica con l’Europa, da cui sarebbe poi discesa l’unità politica. Il commercio internazionale fondato su una chiara asimmetria era l’asse della nuova politica internazionale.

Asimmetrico perché permetteva agli alleati occidentali e asiatici di esportare senza limite alcuno nell’area Nord americana, asimmetrico perché questa politica commerciale non chiedeva agli alleati alcuna controprestazione. A riprova di ciò, l’Unione Europea si costruì passo passo come uno Zollverein (unione doganale) in un’area continentale prima con basse poi con nessuna tariffa daziaria, così da favorire la libera circolazione delle merci all’interno dell’ Unione, ma nel contempo erigendo attorno al perimetro continentale un muro protezionistico che creò non pochi problemi alle produzioni agricole e manifatturiere non europee che volevano dirigersi verso i mercati del Vecchio Continente. 

Forte dei guadagni realizzati con l’esportazione, l’Europa poteva in tal modo creare un sistema di welfare su cui costruire un consenso e una coesione sociale essenziale per fronteggiare la minaccia dei sovietici e dei loro partiti comunisti, forti in primo luogo in Italia e in Francia. Quest’ultima era (e in parte lo è ancora) una potenza con forti interessi africani di grande peso strategico e con continue pulsioni anti-Usa; l’Italia, invece, svolgeva nel Mediterraneo un ruolo chiave diretto a condizionare la presenza comunista in Medio Oriente. Ruolo che svolse con intermittenza e con molte debolezze per via della politica filo palestinese che sino al governo Renzi ha sempre caratterizzato in molteplici modi la nostra politica estera.
Oggi questa politica deve mutare in senso non più anti russo. La Germania fu ed è tuttora la potenza continentale che più trae vantaggio da tale commercio asimmetrico per la sua eccezionale potenza di fuoco nel settore delle esportazioni a livello mondiale. Quello che valeva e vale per l’Europa valeva e vale per gli alleati asiatici più importanti, ossia Giappone e Thailandia, che esportano i loro prodotti in Usa ma mantenevano e mantengono rigide misure protezionistiche. I contadini del Mississippi non possono esportare i loro prodotti in Giappone e in Europa mentre le auto giapponesi invadono il mercato nord americano assieme a quelle tedesche, sradicando in tal modo posti di lavoro destinati agli operai nord americani che, come sappiamo, costituiscono, con gli impiegati pubblici, il cuore delle cosiddette classi medie Usa.

Tutto questo aveva le sue arterie finanziarie: si pagava in dollari e questi, dopo aver invaso i mercati non Usa, ritornavano nel paese di origine reinvestiti dagli esportatori europei e asiatici nel sistema finanziario più redditizio del mondo, con quello del Regno Unito, ossia Wall Sreet. Ma se da una parte questa giostra monetaria ha rifinanziato senza sosta il debito Usa, dall’altra ha deindustrializzato l’America con una forza e una rapidità impressionante che nessuno aveva previsto, creando quella disuguaglianza nei redditi e nei sistemi di status che è stata tanto studiata da un pugno di accademici, quanto vissuta da milioni di persone che con Trump si sono messe in marcia in una misura e in una forma che non era mai accaduta prima. C’erano tutti i presupposti: mancava solo la scintilla per accendere il fuoco nella prateria segnando il ritorno del populismo nord americano così come si era già manifestato nel Populist Party nato dalle ceneri del Greenback-Labor Party di fine Ottocento e che nel 1911 conquistò l’elezione diretta dei senatori sancendo la fine del Senato come “club dei milionari”.
È una lunga storia che con Trump è tornata a scuotere nelle fondamenta il sistema delle élite di potere, con conseguenze che sono per ora imprevedibili ma che vanno nel senso di chiudere definitivamente l’era della guerra civile europea e di aprirne un’altra, fondata su una sorta di risarcimento nei confronti degli Stati Uniti dei pesi che essi hanno sopportato nel periodo della cosiddetta guerra fredda e che ora non possono più sostenere pena una crisi che potrebbe essere profondissima.

Da questa crisi non uscirà di certo vittoriosa l’Europa, prostrata dalla politica commerciale fortemente imposta dai tedeschi. Sarà probabilmente la Cina a goderne i frutti. E ciò costituisce un pericolo non lieve per la stessa civiltà occidentale. È questo che il Regno Unito non comprende ed è questo il cuore pulsante probabilmente destinato all’infarto della Brexit. Essa si spiega non guardando all’Europa, ma agli Stati Uniti e a quanto sin qui detto. Con la stessa logica prima illustrata, Trump vuole abolire il (mai firmato) il patto commerciale TransPacific. Ed ecco la contraddizione: esso poteva sì costituire un’arma contro la Cina, ma già prima di Trump si era rivelato inattuabile per il distacco dagli Usa di nazioni come le Filippine, la Malesia e la Thailandia.
D’altro canto, il Regno Unito si illude di poter dare vita a un nuovo impero grazie all’accordo con la Cina perché ne sottovaluta fortemente l’ambizione imperiale e l’aggressività militare, a differenza di Trump. 
Appare dunque chiaro che sul commercio estero si sta delineando uno scenario interamente nuovo e che vuol lasciare dietro di sé un passato che era inevitabilmente destinato, Trump o non Trump, a scomparire.
 
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