Ora più complicata la trattativa Brexit

di Osvaldo De Paolini
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Venerdì 9 Giugno 2017, 00:15
Se la Bce ha di fronte a sé un percorso di attenuazione della politica monetaria, non così è per la Bank of England. L’esito delle elezioni inglesi lascia infatti supporre che per la banca centrale inglese i prossimi saranno anni particolarmente impegnativi. Accantonati gli scenari più sfavorevoli per Theresa May, resta l’azzardo del premier britannico che con nuove elezioni sperava di poter contare su una maggioranza più solida. E dunque, mancato l’obiettivo di rafforzare la propria capacità contrattuale nel negoziato con Bruxelles sulla Brexit, per l’economia del Regno Unito si annunciano giorni non facili. Sicuramente meno facili di quanto sia sembrato fino a ieri, nonostante un’inflazione vicina al 3%, un debito cresciuto al 90% del Pil (record da vent’anni), una produttività in calo, consumi in declino e una sterlina sempre più debole: evidentemente i drammatici eventi delle ultime settimane hanno spostato il confronto politico, insieme all’attenzione dei cittadini inglesi, su questioni vitali più immediatamente percepibili, inducendoli a sottovalutare gli scricchiolii di un’economia che se finora non ha pienamente rispettato le profezie funeste che dopo il 23 giugno 2016 ne davano per imminente il crollo, con l’avvio del negoziato sulla Brexit quelle fosche previsioni avranno più probabilità di avverarsi.

Ciò spiega il clima di tensione che ieri sera si respirava ai piani alti della Banca centrale inglese, chiamata a valutare la nuova situazione fin da giovedì 15 con lo scopo di predisporre le misure necessarie per far fronte a una situazione di turbolenza che col passare dei mesi potrebbe diventare non facilmente gestibile. Basti pensare ai 100 miliardi di euro che Londra, secondo il Financial Times, potrebbe essere chiamata a sborsare per saldare tutte le pendenze aperte con l’Ue. Una cifra quasi doppia rispetto ai 58 miliardi indicati sulla base di stime provvisorie dal presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, di per sé capaci di condannare l’economia inglese a un regime di austerità lungo diversi anni.

Non a caso fin da subito sono volati gli stracci. E se Juncker dopo un incontro con la May non ha esitato ad affermare di sentirsi «10 volte più scettico sulla possibilità di un accordo fra Ue e Gran Bretagna», per tutta risposta il premier inglese lo ha avvertito che avrà a che fare con una negoziatrice «bloody difficult», maledettamente difficile. E se Michel Barnier, il negoziatore ufficiale di Bruxelles, è sembrato appena più diplomatico precisando che «la somma che il Regno dovrà pagare sarà il giusto, non un castigo», subito gli ha fatto eco il ministro della Brexit, David Devis: «La Ue si scordi di vedere quei 100 miliardi». Ma dopo l’esito del voto di ieri, che cosa resterà di tanta spavalderia?

UN PUNTO CRUCIALE
Prima l’uscita e poi nuovi accordi, aveva subito tuonato la Ue. Si tratta di un punto cruciale del negoziato, perché insieme ad altre due questioni (i diritti dei 3 milioni di residenti europei nel Regno Unito e il confine tra le due Irlande) è la premessa per poter poi trattare futuri accordi commerciali privilegiati tra Londra e Bruxelles. Ancora due giorni prima delle elezioni, la signora May preannunciava una «hard Brexit», ovvero un’uscita dura dal mercato unico e il controllo dell’immigrazione dalla Ue. Una richiesta però inaccettabile, alla quale fin da subito Angela Merkel aveva risposto precisando che la Gran Bretagna non avrebbe ottenuto un accordo di libero scambio senza la garanzia della libera circolazione di persone e merci. E si tratta di grandezze rilevanti, con problemi di sostituzione enormi: basti pensare alle decine di migliaia di professionisti di talento che per scelta lasceranno il Regno Unito; oppure alla dimensione dell’import dall’Europa, che nel 2016 è ammontato a 574 miliardi a fronte di un export pari a 370 miliardi.

C’è poi il fronte interno, rappresentato da Scozia e Irlanda. Quanto alla prima, il Parlamento scozzese ha già autorizzato la premier Nicola Sturgeon a chiedere un secondo referendum per l’indipendenza da Londra. Alla prima consultazione (settembre 2014) gli elettori votarono per rimanere nel perimetro del Regno. Ora però la prospettiva Brexit determinerebbe con ogni probabilità un esito opposto, dal momento che la maggioranza degli scozzesi vuole restare nell’Ue. Sarebbe un disastro per Londra, anche perché la consultazione potrebbe essere usata da Bruxelles come arma di pressione durante il negoziato.

Infine l’Irlanda. Per controllare l’immigrazione dall’Ue, il Regno Unito dovrebbe blindare la frontiera fra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord. In caso contrario, qualsiasi europeo potrebbe prendere un aereo per Dublino e di lì un treno per Belfast, ritrovandosi tranquillamente sul suolo britannico. Ma la chiusura del confine danneggerebbe profondamente l’economia nordirlandese e potrebbe mettere a rischio la pace nell’Ulster.

Insomma, a quanto è dato capire nel negoziato sulla Brexit l’esito elettorale non ha aiuterà granché la May. Che, anzi, ora avrà più difficoltà a impedire scenari di frantumazione del Regno Unito. Anche perché, come gli scozzesi, lo scorso 23 giugno i nordirlandesi votarono in maggioranza «remain».
 
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