L’azzardo di May si rivela un disastro

di Marco Gervasoni
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Venerdì 9 Giugno 2017, 00:15 - Ultimo aggiornamento: 01:04
«L’Inghilterra è agitata da venti che non sono fatti per sommergerla ma per condurla in porto», annotava Montesquieu.

Nel momento in cui scriviamo, pochi minuti dopo la chiusura delle urne, gli exit poll non ci dicono però dove spiri il vento della Brexit, se per l’uscita in mare aperto o verso un prudente rientro. Theresa May e i Conservatori sarebbero infatti in testa, ma senza maggioranza assoluta. L’opposto del governo «forte e stabile» richiesto dalla premier uscente. Pur brancolando nel buio, anzi, per stare in clima inglese, nella nebbia, cerchiamo di fissare alcune coordinate. 

La prima: anche se poi riuscisse a raccogliere una maggioranza per May è una pesante sconfitta. E non tanto per quel vantaggio mostruoso di un mese fa, poi dileguatosi con rapidità. E’ una disfatta perché è stata solo lei a volere le elezioni accreditandole di un significato storico, la decisione definitiva sulla Brexit. Ma così facendo non è solo la sua figura a essere messa in discussione, ma pure la Brexit. Le ragioni di questo crollo? Numerose: una campagna elettorale disastrosa sul piano prima di tutto della comunicazione politica. 

Poi gli attentati terroristici: in quanto ex ministro degli Interni, non è apparsa in grado di proteggere gli inglesi, che non si sono fatti convincere dai repentini proclami repressivi e dalle critiche al comunitarismo. Quindi il programma; non ha persuaso gli elettori la svolta verso un «conservatorismo rosso», favorevole ai Tories come un partito del popolo e della «classe lavoratrice». Almeno nel Regno Unito destra e sinistra rimangono due casematte contrapposte e impenetrabili. Infine, May ha sottovalutato il suo principale avversario, Corbyn che, pur non dotato di particolare carisma, è riuscito in quello che fino a poche settimane fa pareva un miracolo, non solo evitare il crollo del Labour ma persino farlo crescere di deputati. 

A parte il nome, però, non è più lo stesso partito di Blair e neppure quello di Miliband. Tra nazionalizzazioni, choc fiscale per i ricchi, riduzione delle spese militari e disimpegno in politica estera, di riformista non v’è più nulla: sono tre passi nel delirio dell’anticapitalismo, di un «socialismo nazionale» o, come si dice oggi, di un sovranismo, ma rosso. Guai perciò a leggere il successo di Corbyn come una scelta europeista. E’ inoltre l’ennesimo segno che non è in crisi tutta la sinistra. Lo è quella «riformista», mentre fa bella mostra di sé quella cosiddetta «radicale», che andrebbe più correttamente definita «collettivista». 

La terza coordinata è rappresentata, ovviamente, dalla Brexit. Con questo risultato in realtà tutto si complica. L’interrogativo principale è questo: sarà più malleabile e più dolce ora l’uscita dalla Ue, come si auguravano molto investitori della City a cui per questo non spiaceva un buon risultato di Corbyn? Forse, ma non ci scommetteremmo. Un leader indebolito, impaurito, a capo di un partito e di un governo diviso, può essere tentato da strappi e da colpi di testa assai più di un premier solido e ampiamente legittimato dal voto. Peggio ancora poi se i Tories non dovessero neppure raggiungere la maggioranza: forse May si farebbe da parte, in ogni caso si apriranno mesi di instabilità, che però difficilmente vedrebbero un ritorno in scena delle élite europeiste. La possibilità di un governo tra Laburisti, nazionalisti scozzesi e liberal-democratici sulla carta è possibile: ma solo su quella. 

Oltre alla scarsa omogeneità delle tre forze, questa soluzione andrebbero contro la prassi inglese di far guidare il governo al partito con il maggior numero di voti, appunto i Tories. Se molti hanno voluto ridimensionare May per salvare uno spazio europeo del Regno Unito, potrebbero ottenere l’effetto contrario: allargare a dismisura la Manica.


 
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