Le frontiere/Quel triste ritorno all’Europa dei nonni

di Giuliano da Empoli
3 Minuti di Lettura
- Ultimo aggiornamento: 23 Gennaio, 00:05
Piano piano ci stiamo arrivando. A furia di eccezioni, di misure straordinarie e di stati d’emergenza.

I controlli alle frontiere stanno ridiventando la norma, all’interno dell’Europa. E lunedì, i ventotto ministri degli Interni riuniti ad Amsterdam si troveranno per la prima volta sul tavolo il tema concreto della sospensione per due anni dell’accordo di Schengen. Non decideranno, prenderanno tempo, lanceranno appelli, ma tanto è lì che si va a parare. La più importante conquista di sessant’anni di storia comune, la libera circolazione delle persone nell’ambito dell’Unione, è ormai poco più di un ricordo.

Torneranno i passaporti, le garitte, le gimcane in macchina e le code in aeroporto, le espressioni arcigne dei controllori e quell’impercettibile ansia che accompagna tutti i passaggi di frontiera, anche quando si hanno le carte in regola. Sembravano residui del passato, destinati a rimanere confinati nel regno della nostalgia e dei documentari storici. Eccoli invece di nuovo parte della nostra vita. Forse solo il primo passo nella direzione di un futuro sempre più tracciabile e monitorato.
Per i meno giovani è solo un passo indietro. Il ritorno ad una condizione di normalità che ha accompagnato la maggior parte della loro esistenza. Per andare in Francia ci vuole il passaporto, o per lo meno la carta d’identità valida per l’espatrio. Chi vuole circolare sul continente deve prepararsi ad attraversare qualche decina di frontiere, cicatrici di innumerevoli guerre e di una storia che non passa, che può riattivarsi in qualunque momento.
Per i ragazzi, invece, le cose stanno diversamente. L’Europa unita per loro non vuol dire pace, come per i nonni: quella è scontata, gli sembra (erroneamente) parte dell’ordine naturale delle cose. E neppure vuol dire crescita economica, come è apparsa a lungo alla generazione dei padri: quella l’hanno vista solo in fotografia e hanno già capito da tempo che nessun pasto è gratis.

No, per chiunque abbia meno di trent’anni, l’Europa unita vuol dire prima di tutto mobilità. Saranno anche cresciuti in un continente in declino, con tassi di disoccupazione a doppia cifra e tassi di crescita da prefisso telefonico, ma l’Unione ha regalato loro l’ebbrezza dei voli low-cost e l’avventura dell’Interrail, l’esperienza dell’Erasmus e la possibilità, per lo meno teorica, di salire in macchina e guidare da Lisbona a Tallinn senza attraversare neppure una frontiera. Interrogato su cosa significhi l’Europa unita, il 57% dei giovani tra i 15 e i 24 anni cita per prima la libertà di viaggiare e di vivere dove gli pare.

Ora, tutto questo rischia di finire. Il fallimento dell’Europa dei padri, quella dell’economia e della finanza che non riesce a uscire dalla crisi, trascina con sé l’Europa dei figli, quella dello scambio e della mobilità senza confini. Resta in piedi, sempre più sbiadito, l’ideale remoto dell’Europa dei nonni: mai più le armi, mai più la guerra sul continente che è stato per secoli un unico immenso campo di battaglia. È un richiamo lontano, quasi incomprensibile per chi oggi si affaccia all’età adulta.
Eppure forse è da lì che dovrà ripartire, domani, chiunque vorrà iniziare a ricostruire sulle macerie dell’Europa di oggi.
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA