L'Egitto nell'incubo jihadismo: la linea dura di Al Sisi non basta

L'Egitto nell'incubo jihadismo: la linea dura di Al Sisi non basta
di Azzurra Meringolo
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Sabato 9 Gennaio 2016, 08:52
La nazione che si presenta come lo stabilizzatore regionale teme per la sua sicurezza interna. È questo il paradosso davanti al quale si trova il “nuovo” Egitto di Abdel Fattah Al Sisi, Paese che dopo essersi liberato dagli islamisti della Fratellanza Musulmana, duramente repressi e confinati nuovamente alla clandestinià, si è riaffidato alle mani dell'esercito che deve ora fare i conti con quanti, negando la legittimità del “nuovo” regime, minacciano la sua esistenza e la stabilità nazionale. Le politiche repressive del governo – contro i suoi oppositori, islamisti e non - stanno infatti alimentando una nuova generazione di estremisti.

I CONFINI CON LA LIBIA
Questo conduce a una recrudescenza di violenza che si concentra soprattutto lungo i confini porosi con la Libia e la Striscia di Gaza, ma che riecheggia anche nel cuore del Paese e nelle località turistiche che per anni sono stati la linfa dell'economia egiziana. Soprattutto a partire dal luglio 2013 - quando la deposizione dell'islamista Mohammed Morsi ha portato a un'escalation di violenza che ha colpito anche il Cairo, il suo distretto, il canale di Suez e il delta del Nilo- le minacce alla stabilità egiziana sono sempre più ibride.

Solo nei primi sei mesi del 2015 si sono verificati 721 attacchi terroristici, contro i 155 registrati nello stesso arco di tempo nel 2014 e i 36 del 2013. Se negli anni precedenti questi si erano concentrati soprattutto nella provincia del Nord Sinai ( dove nel 2013 si sono verificati il 67% degli incidenti e nel 2014 il 42%) lo scorso anno solo un terzo degli attacchi si è rivolto a questa provincia, confermando che la violenza si è estesa sempre di più a quelle regioni che negli anni precedenti erano ritenute più sicure.

L'OFFENSIVA
Per rispondere a queste minacce, il Cairo ha intrapreso una serie di campagne anti-terrorismo, in primis nel Sinai. Prima del crollo, il 31 ottobre, dell'aereo russo decollato dall'aeroporto di Sharm El Sheikh, queste sembravano essere riuscite se non altro a contenere l'avanzata di Wilayat al-Sinai, la cellula egiziana fedele alle truppe dell'autoproclamatosi “Stato islamico”. Il giallo attorno a questo evento nel quale hanno perso la vita 224 persone ha però messo in dubbio non solo la conoscenza egiziana dei networks jihadisti e delle loro capacità di sviluppo, ma anche il funzionamento e la lealtà del sistema di intelligence e di sicurezza nazionale. Ed è proprio sfruttando al meglio il dossier della lotta al Califfato e descrivendo l'Egitto come la pedina in grado di scongiurare il caos regionale che Al Sisi è riuscito a ottenere il sostegno delle cancellerie occidentali. In primis quella italiana, visto che Matteo Renzi è stato il primo leader occidentale ad atterrare al Cairo, nell'agosto 2014, per stringere le mani all'ex generale Al Sisi divenuto da poco nuovo raìs.

Il nuovo regime egiziano suscita però molte perplessità. La feroce repressione contro i Fratelli Musulmani (che pur clandestini stanno riorganizzando la loro leadership), i giornalisti, gli sparuti e sprovveduti liberali del Paese svela infatti l'emergere di un regime autoritario e non inclusivo. La sua stabilità ha non solo un prezzo altissimo in termini di diritti umani, ma anche una dubbia sostenibilità nel lungo periodo.