Edimburgo inquieta/ La consultazione deciderà anche lo strappo scozzese

di Marco Gervasoni
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Mercoledì 19 Aprile 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 00:28
Spirava vento ieri mattina fuori Downing Street, e scompigliava i capelli di Theresa May. Le stesse folate che spingono il Regno Unito lontano dal Continente.

La mossa di indire elezioni anticipate, a soli due anni dalle ultime, dimostra infatti l’irreversibilità della Brexit e la morte delle speranze, se non in un ripensamento, almeno in un compromesso. La decisione della premier dovrà naturalmente essere ratificata da due terzi dei parlamentari, ma è improbabile una bocciatura, tanto più con l’opposizione d’accordo. Vero è che non si tratta di una procedura consueta: in settant’anni solo due premier laburisti e uno conservatore hanno chiamato, come si dice in gergo, elezioni anticipate (e due di loro le persero); e sempre perché essi disponevano di maggioranze assai esigue, diversamente dal governo May. Benché non comune, si tratta tuttavia di una scelta del tutto legittima, e sbagliano quelli del «Guardian» che già ieri denunciavano un «colpo» (di Stato?). Se oggi fa fino vedere dittatori un po’ dappertutto, ci vuole infatti troppa fantasia a scorgerli anche sulle rive del Tamigi. La leggera emozione che tradiva la voce della May era però dovuta al carattere storico della sua risoluzione. Non si voterà infatti tanto su un programma di governo, quanto per chiedere agli inglesi di confermare la Brexit, fornendo ampio mandato a quel leader e a quel partito che intende portarla a compimento. Si va alle urne poi per legittimare la stessa May come capo dell’esecutivo.

E’ vero infatti che nel Regno Unito, sistema parlamentare, sono consentiti i cambi di premier senza passare dalle elezioni. Ma anche questa è cosa un po’ eccezionale, e tutti quelli che hanno ereditato il governo solo con il voto di Westminster non hanno poi avuto un gran futuro. Inoltre la May in campagna referendaria si era schierata per il Remain, mentre con le elezioni si vuole far investire leader della Brexit, assai più di Johnson, di Farage e di altri. E di un’uscita che sarà «dura». Si poteva sperare in soluzioni dilatorie e ambigue finché quello in carica era un governo ancora in parte composto da Brexiter per caso. Con un esecutivo invece direttamente investito per portare a termine la missione, la premier disporrà di tutta la forza politica per dettare le proprie condizioni a Bruxelles. A sua volta, dalle parti della Ue, questa scelta irrobustisce quelle voci e quei paesi orientati a non concedere sconti a Londra. Dal punto di vista della premier si tratta di una decisione razionale.

Giustificata sì con un discorso incentrato sulla retorica classica delle denuncia delle «fazioni» ostili all’«interesse nazionale», ma in cui è evidente il (legittimo) interesse di partito: con i sondaggi accreditanti i conservatori al 44% contro un misero 22% del Labour, ci sono le premesse per una schiacciante vittoria dei primi e per una disfatta storica del secondo. Che potrebbe condurre a una scissione tra riformisti europeisti e corbyniani nazionalisti, ma però anche favorire lo Scottish National Party, in grado di raccogliere il pieno dei voti al Nord, fino a poco tempo fa roccaforte laburista. Inevitabile, in ogni caso, che si affretti la questione del referendum scozzese: che la May vuole evitare, perché probabilmente finirebbe per smembrare il Regno. Ma non è detto che una super maggioranza conservatrice riesca a convincere Edimburgo: possibile anzi produca l’effetto opposto. Una cosa è certa: con le elezioni francesi (e il loro esito «sorpresa») quelle inglesi subito dopo, le tedesche in autunno e le nostre a seguire, tra pochi mesi in Europa soffierà un vento nuovo. Resta solo da sperare che non si porti via tutto.
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