Quel business anti-amerikano

di Mario Del Pero
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Domenica 27 Novembre 2016, 00:05
Tanti elementi hanno contribuito a fare di Fidel Castro un’icona globale.  Simbolo di coraggio e appeal rivoluzionario, per una parte, demagogico dittatore, per l’altra, Fidel è stato entrambe le cose. Ed è proprio nella relazione con gli Stati Uniti che queste diverse dimensioni si sono intrecciate e alimentate, dentro una rappresentazione eroica di uno scontro impari nel quale si finiva spesso per chiudere gli occhi di fronte alla rapida deriva autoritaria di Cuba. 
L’ascesa al potere di Castro nel 1959 fu in realtà accolta con curiosità da molti negli Usa.

L’auspicio di parte del mondo liberal statunitense era che Castro potesse diventare un interlocutore capace di abbandonare gli eccessi rivoluzionari, promuovere le ottimistiche riforme indicate da Washington e accettare una subalternità strategica ed economica agli interessi statunitensi. I due anni che seguirono videro invece un rapidissimo deterioramento delle relazioni cubano-statunitensi. Si aprì allora una lunga fase di “guerra fredda” caraibica, che avrebbe finito per rafforzare politicamente Castro, consolidandone l’immagine di coraggioso rivoluzionario. 

Per più di trent’anni, la giustificazione primaria dell’ostilità statunitense a Cuba fu quella strategica: dentro gli schemi della Guerra Fredda, il regime castrista era considerato l’avamposto ultimo del monolite comunista. Ma era, ancor più, un modello che ambiva ad estendersi a tutta l’America Latina. Contro questo pericolo, gli Usa mossero inizialmente una guerra totale, imponendo un rigido embargo, cercando di rovesciare il regime e promuovendo operazioni clandestine per assassinare Castro o incrinarne il fascino rivoluzionario (tra gli schemi più bizzarri mai inventati dalla CIA, vi fu anche quello di usare sostanze chimiche depilatorie per rendere Castro glabro e fargli così perdere una virile, e villosa, mascolinità che si pensava contribuisse alla sua popolarità). 

IL SIMBOLO
La Guerra Fredda costituì però anche la condizione ambientale entro la quale Castro trovò un proprio ruolo. Divenne il simbolo globale della resistenza all’impero americano; ottenne preziosi aiuti sovietici; promosse un’audace politica di assistenza anti-imperialista, inviando ad esempio soldati, medici e infermieri in diversi teatri africani.
Fu, paradossalmente, una “relazione speciale” quella tra Usa e Cuba durante la Guerra Fredda. Terminata quest’ultima, la contrapposizione perse progressivamente di senso. L’unità anti-castrista dell’influente comunità d’immigrati cubani, concentrati nel sud della Florida, iniziò a venir meno, con le nuove generazioni assai meno rigide verso possibili aperture a L’Avana. I tanti oppositori di Castro riuscirono a far passare un inasprimento delle sanzioni economiche giustificato in termini di difesa dei diritti umani e non d’interessi strategici. Era un embargo, però, che stava ormai fuori dal tempo e dalla storia. Cuba – priva degli aiuti sovietici e prostrata da decenni d’isolamento e di cattivo governo – si trovava ormai sulle ginocchia; gli Usa erano a loro volta vieppiù isolati in un’America Latina dove nessuno condivideva la linea dell’intransigenza. 

L’APERTURA
L’apertura di Obama, e la disponibilità de L’Avana, si spiegano così facilmente. Vi sono forti incentivi economici, come ben evidenzia il parziale sostegno bipartisan all’apertura, e il disgelo è sostenuto dalla maggioranza dell’opinione pubblica statunitense. Difficile quindi che esso non continui, al di là delle bellicose dichiarazioni di Trump. Non esiste più ragione strategica o politica per la contrapposizione. E non esistono più, o non sono più rilevanti, né l’internazionalismo castrista né l’anti-castrismo statunitense. Fidel, alla fine, è vissuto più a lungo di entrambi. 
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