Quei figli dell’Erasmus, cittadini europei

di Marco Ventura
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Mercoledì 21 Dicembre 2016, 00:26 - Ultimo aggiornamento: 01:20
Muoiono solo i vivi. E nessuno è più vivo di un ragazzo, una ragazza, che da Sulmona, nel roccioso e testardo Abruzzo, gonfia le vele per abitare il mondo. Dalla provincia d’Italia a Berlino, capitale europea, attraverso una laurea a Bologna e il master alla Cattolica di Milano. Per ritrovarsi a 31 anni con un lavoro da italiana all’estero e la sera al mercatino di Natale vicino a un simbolo della guerra e riunificazione, la Chiesa del Ricordo. Probabile vittima di un camion sparato sulla folla come un coltello.

La storia di Fabrizia Di Lorenzo ricorda quella di Valeria Solesin uccisa al Bataclan o il destino amaro delle 7 studentesse italiane di Erasmus morte sulla strada in Spagna per la distrazione di un autista. Scopriamo così, tragicamente, che i nostri figli viaggiano l’Europa. Vivono a Berlino, studiano in Spagna, si scambiano casa tra Francia e Italia, si organizzano nelle residenze universitarie britanniche, tentano la sorte in Germania e Olanda. Cercano una chance. Cercano fortuna, lavoro, prospettive, un futuro. Sono cittadini europei, non solo giovani che vanno all’estero per dribblare l’immobilismo del Belpaese condannato all’autoriproduzione dei dinosauri, al vicolo cieco delle raccomandazioni (degli altri). Ai privilegi di chi si bea delle posizioni acquisite senza cedere il passo a chi avrebbe esuberanza da esprimere, competenze fresche da mettere in campo.

Fabrizia aveva postato sul twitter una pillola da “La meglio gioventù”, lo spezzone in cui il professore universitario spinge Nicola a lasciare l’Italia «bella e inutile, che va distrutta». Lei sottoscrive. L’Italia? «Un Paese di dinosauri in cui non cambia mai nulla». È il 5 dicembre e la ragazza sembra essere tra gli italiani all’estero delusi per la vittoria del “no” al referendum costituzionale. Immobilismo e dinosauri non abitano a Berlino, città del futuro.
Fabrizia era viva, scriveva sui fogli della comunità. Lavorava, usciva la sera, continuava a sperare (a torto o a ragione) in una Italia in movimento. Sfidava il pericolo di vivere in una Europa minacciata dal terrore fai-da-te che colpisce alla cieca. Ed è morta perché non si era rassegnata.

Perché sradicarsi significa rischiare. Dietro di lei c’era una famiglia che la amava, perciò aveva accettato il rischio. Il viaggio. Lo sradicamento. L’idea di una vita da costruire altrove. Ma quell’altrove non era sulla Luna o in Cina. Era una casa comune più vasta. I nostri figli sono cittadini europei. Non saranno “la meglio gioventù”, come goffamente azzarda il ministro del Lavoro Giuliano Poletti quando difende i milioni rimasti, non tutti «dei pistola», mentre fra quelli partiti ce ne sarebbero che l’Italia «non soffrirà a non averli più fra i piedi». Ma quei giovani hanno rischiato. Sono partiti. Italiani che hanno scelto di vivere, e morire, da cittadini europei.
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