Caccia al terrorista di Berlino, la direttrice del carcere di Palermo dove fu rinchiuso: «Non sembrava un estremista islamico»

Caccia al terrorista di Berlino, la direttrice del carcere di Palermo dove fu rinchiuso: «Non sembrava un estremista islamico»
di Valentina Errante
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Venerdì 23 Dicembre 2016, 07:53
dal nostro inviato
PALERMO
FRANCESCA Vazzana, direttore del carcere di Pagliarelli, ricorda perfettamente Anis Amri, detenuto nell'istituto penitenziario di Palermo da settembre a gennaio 2015 e poi trasferito all'Ucciardone per gravi e comprovati motivi di sicurezza. Prima c'erano stati Catania, Enna, Sciacca e Agrigento, l'attentatore di Berlino era stato sempre trasferito dopo aggressioni e molestie nei confronti dei compagni. Ad Agrigento, in particolare, avrebbe minacciato un compagno di cella che non voleva convertirsi al Corano. Durante quattro mesi al Pagliarelli è stato al centro di numerosi episodi violenti: «Era un soggetto molto difficile - spiega adesso Francesca Vazzana - c'era un evidente problema culturale». Ma, per quanto abbia lei stessa segnalato Amri come soggetto pericoloso, chiedendone il trasferimento in base all'ordinamento penitenziario, non emergevano, allora, aspetti palesemente legati a un fenomeno di radicalizzazione.

Qual era il profilo di Amri?
«Era un detenuto problematico, provocava sempre situazioni estreme, aveva un comportamento aggressivo che rendeva impossibile la sua convivenza con altri detenuti o pericolose le relazioni con il personale penitenziario. La sua condotta degenerava frequentemente nell'aggressione. Era con ogni evidenza un soggetto che manifestava un disagio psicologico, dovuto alla mancata accettazione culturale del nostro sistema».

Pensa potesse trattarsi di un problema di radicalizzazione?
«Alla luce dei fatti accaduti, sembra scontato trarre questa conclusione, di fatto, Amri aveva atteggiamenti che, generalmente, assumono le persone che non stanno bene, che hanno un disagio psicologico. Il totale rifiuto delle regole sfociava spesso in aggressività, soprattutto nei confronti dei compagni di cella. È stato subito chiaro che questa forma di aggressività derivasse da un problema culturale. Ovviamente era uno dei soggetti monitorati, ma allora non emergeva con chiarezza un profilo di radicalizzazione».

Lei parla di un problema culturale ma non di radicalizzazione, qual è la differenza?
«Se non ci sono elementi oggettivi, è molto difficile stabilire quando si tratti di un problema semplicemente amministrativo, che riguarda quella parte della popolazione carceraria che è aggressiva e non rispetta le regole per un problema comportamentale, e quando invece gli atteggiamenti violenti derivino da una scelta di radicalizzazione. Sicuramente era una persona violenta e pericolosa, ma non risultavano episodi allarmanti in questo senso. Di certo aveva un comportamento incompatibile con le regole del sistema carcerario».

Nel carcere di Agrigento ha picchiato alcuni detenuti perché cristiani, ha minacciato di tagliare la testa a un compagno di cella per questioni religiose, sono avvenuti episodi dello stesso genere anche a Pagliarelli?
«Ha picchiato alcuni detenuti, è stato aggressivo con le guardie penitenziarie, ma dagli episodi che si sono verificati nell'istituto che dirigo, non sono emersi elementi che facessero pensare a un fenomeno di radicalizzazione. Era un riottoso, violento».

Nelle carceri italiane sarebbero circa 300 i detenuti radicalizzati su una popolazione di undicimila musulmani in custodia. Qual è la situazione a Pagliarelli?
«I soggetti monitorati sono moltissimi. Tutti i detenuti islamici, oramai lo sono. Siamo diventati attenti a ogni minimo segnale».

Quanti sono quelli ritenuti realmente pericolosi, tenuti sotto stretta osservazione?
«Una trentina in tutto».