Bangladesh, giustiziato per crimini di guerra e genocidio il leader del partito islamico

Bangladesh, giustiziato per crimini di guerra e genocidio il leader del partito islamico
di Antonio Bonanata
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Mercoledì 11 Maggio 2016, 17:54 - Ultimo aggiornamento: 12 Maggio, 15:37
A niente sono valse le reiterate richieste di appello per revocare la sentenza di condanna a morte: Motiur Rahman Nizami, 73 anni, capo del Jamaat-el-Islam, principale partito islamico del Bangladesh, è stato impiccato alla mezzanotte di ieri in un carcere di Dacca, la capitale del paese. Per due anni, cioè da quando era stato condannato per crimini di guerra – compreso genocidio, stupro e tortura – commessi durante la Guerra di indipendenza dal Pakistan del 1971, Nizami ha cercato di ribaltare in appello le sorti del processo, senza però negare le proprie responsabilità di ispiratore e ideologo del movimento politico che ora piange la sua morte. L’impiccagione è arrivata solo pochi giorni dopo l’ultimo tentativo andato a vuoto, respinto dalla Corte suprema del paese asiatico. Nizami, ha fatto sapere il ministro della giustizia, si era rifiutato di chiedere la grazia al presidente Abdul Hamid.
Il leader islamico non si è mai piegato all’evidenza storica e all’esito della Guerra di secessione che nel 1971 vide fronteggiarsi l’India e il Pakistan dell’Est, da una parte, e il Pakistan dell’Ovest, dall’altra, conclusasi dopo nove lunghi mesi con l’indipendenza del Pakistan dell’Est (divenuto Bangladesh) e un bilancio – stimato – di quasi tre milioni di civili uccisi. Nel corso del processo che lo ha visto imputato per crimini di guerra, Nizami ha ribadito più volte che la sua opposizione all’indipendenza è stata sempre e solo ideologica (in quanto capo del partito Jamaat-el-Islam) e di non aver preso parte a stragi di massa.
Niente a che vedere, quindi, con l’ala giovanile del movimento politico, composta da militanti violenti e sanguinari, trasformati da Nizami – a detta dell’accusa – in vere “squadre della morte”, responsabili dell’uccisione di professori, scrittori e giornalisti. «Quando è divenuto chiaro che il Pakistan avrebbe perso la guerra – ha dichiarato il procuratore Mohammad Ali – Nizami, in qualità di capo e sulla base di un elenco di obiettivi da colpire, ha ordinato di sequestrare e uccidere i principali intellettuali del paese. L’obiettivo era mutilare dal punto di vista culturale il nascente stato».
L’impiccagione dell’ideologo fa ora temere in una nuova escalation di violenze nel paese a maggioranza sunnita, dove la convivenza tra vari gruppi etnici, separati da differenze sociali e religiose, è sempre più precaria; negli ultimi anni, infatti, ci sono state numerose uccisioni di attivisti laici e liberali e di membri delle minoranze religiose da parte di probabili militanti islamisti. È dal 2013, poi, che i principali leader dell’opposizione vengono giustiziati, dopo processi che hanno attirato biasimi trasversali, per crimini commessi durante il conflitto del ’71; Nizami è solo il quinto in ordine di tempo – il quarto appartenente alla formazione Jamaat-el-Islam. Intanto il partito prova a mobilitare il suo popolo in tutto il paese, convocando per domani manifestazioni di protesta per denunciare un’esecuzione ritenuta ingiusta, basata su accuse false e motivata dall’intento di decapitare la guida del movimento islamico.
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