L'avanzata del Califfato

di Ennio Di Nolfo
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Mercoledì 18 Marzo 2015, 23:36 - Ultimo aggiornamento: 19 Marzo, 00:17
Ciò che è accaduto ieri a Tunisi non è solo l’ennesima manifestazione della ferocia con la quale gli estremisti dell’Islamismo combattono la loro battaglia. È anche, e piuttosto, un nuovo segnale, del modo sistematico e strategicamente elaborato con il quale gli uomini dell’Isis (che hanno rivendicato l’ennesimo massacro) perseguono la loro strategia.



Si tratta una strategia che potrebbe essere definita con molti aggettivi ma che deve anzitutto essere guardata come l’espressione di una razionalità stravolta e sempre più minacciosa. Perciò, mentre al terrorismo qaedista era possibile rispondere aumentando la sorveglianza, circondando di cautele e protezioni i luoghi sensibili, senza però che si potesse a priori immaginare quali sarebbero stati, la nuova e più elaborata edizione del fondamentalismo, l’idea di Califfato, l’idea che gradualmente, muovendo da una immaginaria Medina odierna, l’islamismo si possa estendere con la sagacia della strategia, la forza della religiosità, la potenza delle armi, dal nord della Siria e dell’Iraq verso tutto il territorio che già appartenne al primo impero islamico, questa idea ha una sua coerenza interna innegabile.



È una coerenza che porta le bande del Califfato a combattere ovunque si offrano spazi vuoti o spazi occupati dal nemico sunnita e li porta a non subire sconfitte definitive, poiché a ogni ritirata sul territorio corrisponde un’avanzata verso una direzione diversa. Il Califfato tende a dominare gran parte dell’Iraq settentrionale; a scendere lungo la valle del Tigri e dell’Eufrate, a raggiungere la penisola del Sinai, trasformandola da territorio egiziano o qaedista in una sorta di terra di nessuno, dove ogni scorribanda è possibile.



Tende a passare verso l’Africa dove coglie dapprima le difficoltà della convivenza tra il regime militare del generale El Sisi e ciò che resta vivo della Fratellanza musulmana, raggruppando in teoria una poderosa forza d’urto. Ma poi le stesse forze del Califfato si vedono il terreno spianato dall’inesistenza di uno stato libico e si infiltrano in ogni località dove scorgano lo spazio necessario per insediarsi e sfruttare le risorse locali per rafforzare il loro potere finanziario.



Di là della Libia, possono guardare alla galassia di gruppi affini, da Boko Aram agli altri sistemi terroristici che si trovano in Nigeria o al margine del Marocco, o dominano il territorio interno dell’Algeria. Fra queste terre, la Tunisia esiste come uno stato teoricamente colonizzabile praticamente dominato da due partiti, uno di tendenza islamica moderata, Ennahda (Rinascita) e l’altro, Nidaa Tounes (Appello per la Tunisia) maggioritario, di tendenza laica. Rispetto alle istituzioni che i due partiti stanno cercando di varare, restituendo alla Tunisia un modello quasi-occidentale di vita, gli uomini del Califfato dispongono di due risorse: il fatto che siano di nazionalità tunisina la maggioranza dei cosiddetti foreign fighters, cioè dei volontari accorsi in Sira per combattere contro Assad ma confluiti nelle formazioni dell’Isis; e il fatto che il diffuso islamismo popolare sia praticamente indifferente alle declinazioni del suo modo di essere e sia pertanto indifferente rispetto a quale delle sfumature del potere islamico sia dominante nel proprio paese, al punto di rendere la Tunisia non terra di conquista ma terra di proselitismo e base di lancio verso l’Europa.



Infatti, eccezion fatta per il Marocco, quale altro Paese è più vicino della Tunisia alle coste europee?

Si tratta, com’è necessario immaginare, di capire se davvero i Paesi europei possano assistere a ciò che accade sulla loro porta di casa senza predisporre una risposta adeguata. Per risposta adeguata non si può intendere un'espressione generica di buona volontà, ma la manifestazione di una volontà determinata e risoluta a schiacciare un nemico che avanza con l’astuzia e la costanza di una serpe. Ancor oggi, negli Stati Uniti, ci si domanda se tutto ciò sia di loro interesse. Ma bisogna pensare che la visione interna di ciò che sono gli interessi americani nel mondo sia scesa a un punto ben basso, per immaginare che siano sufficienti le buone parole per frenare chi è pronto a usare tutti gli altri mezzi.