Lo scenario/ Dal raid anche lo Zar ottiene due vantaggi

di Gianandrea Gaiani
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Lunedì 16 Aprile 2018, 00:29
Il blitz missilistico effettuato dagli anglo-franco-americani contro la Siria non ha provocato vittime. Ha distrutto obiettivi probabilmente di valore marginale per il regime di Assad e consente ai protagonisti di incassare qualche vantaggio, portando inaspettatamente acqua al mulino anche di chi l’ha subita.
Per esempio, Mosca ha sottolineato che i suoi reparti militari e i sistemi di difesa aerea non sono stati coinvolti nell’attacco evidenziando così come le potenze occidentali riconoscano la forza russa e temano di doverla fronteggiare.

Certo, la Russia minaccia risposte adeguate ma di fatto esce rafforzata dal blitz guidato dagli americani, riconfermando il suo peso strategico anche in Medio Oriente e sottolineando la contrapposizione tra il suo ruolo di stabilizzatore e quello dei destabilizzatori occidentali che violano il diritto internazionale schierati al fianco dei “terroristi” contro il governo legittimo siriano. Del resto, tre ore dopo la fine degli attacchi i sostenitori di Bashar Assad erano già stati mobilitati per organizzare manifestazioni di sostegno al regime. A sua volta, il presidente siriano può vantarsi di essere sopravvissuto, e quindi simbolicamente uscito vincitore dall’attacco delle tre principali potenze occidentali e di aver tenuto testa con onore ai loro missili hi-tech. Il fatto che l’attacco sia stato puramente simbolico poco importa in termini propagandistici e non ci sarebbe da stupirsi se il blitz determinasse un ulteriore rafforzamento di Assad sul fronte interno. Per queste ragioni pare poco probabile che, di là delle reazioni minacciose di rito, Siria, Russia o Iran (quest’ultimo ha subito sabato sera un altro attacco israeliano a una sua base vicino ad Aleppo, che ha provocato almeno 20 morti) passino a vie di fatto scatenando rappresaglie militari. Certo non sarebbe loro difficile colpire alcuni dei 2 mila militari statunitensi schierati nella Siria settentrionale e Orientale al fianco delle forze curde e delle milizie arabe raggruppate nelle Forze Democratiche siriane. Un atto del genere però non offrirebbe vantaggi rilevanti alla causa russa, determinerebbe nuove risposte militari di Washington che provocherebbero un’escalation forse inarrestabile e di certo costringerebbe Donald Trump ad abbandonare definitivamente il proposito di ritirare le sue truppe dalla Siria. Un piano annunciato due settimane or sono, sgradito al Pentagono e ai sauditi a cui, forse non a caso ha fatto seguito la denuncia dei ribelli filo-Riad dell’attacco chimico a Douma.
Resta il fatto che Trump ha ottenuto il plauso degli alleati più stretti in Medio Oriente, Israele e Arabia Saudita, oltre ad aver compattato la Nato nel supporto (sebbene non entusiastico) a un blitz pur se del tutto privo di legittimità internazionale. Di sicuro è riuscito a mostrarsi più determinato del suo predecessore che rinunciò, dopo tanti moniti rivolti ad Assad, ad assumere iniziative belliche minacciandone di nuove in caso di ulteriori impieghi di armi chimiche da parte di Assad.

Dunque, un Trump con l’elmetto in testa ma non per questo più forte poiché solo in futuro si potrà analizzare quanto il presidente abbia scelto la strada dell’attacco, pur solo simbolico, o quanto sia stato indotto a percorrerla per dimostrare di non essere “amico” di Putin. L’ombra del Russiagate sembra infatti continuare a influenzare pesantemente le scelte di Trump, fattosi eleggere in base a un programma che prevedeva la distensione con Mosca. Non a caso in un tweet risalente a 48 ore prima dell’attacco il presidente attribuisse proprio al Russiagate e ai suoi accusatori il deteriorarsi dei rapporti tra Usa e Russia. Ciò nonostante, il raid missilistico limitato e simbolico ha evitato una rottura traumatica con Mosca e soprattutto una pericolosa escalation bellica.

Quanto a Parigi, che aveva preventivamente reso noto di non avrebbe mai colpito obiettivi russi, dopo aver lanciato da navi e aerei 12 missili da crociera sulla Siria sottolinea ora la necessitò di aprire la strada alla soluzione diplomatica di quel conflitto. Quasi una autocandidatura a inserirsi nel dialogo a tre (Russia, Iran e Turchia) che cerca da tempo di disegnare il futuro assetto del paese mediorientale (ex protettorato francese) in un’ottica di stabilità. Un altro passo di Macron per consolidare la sua immagine di leader europeo anche oltre Berlino.

Infine, Londra ha svolto il ruolo di “cenerentola” nel blitz sulla Siria con appena 8 missili lanciati dai cacciabombardieri Tornado basati a Cipro, ma del resto Theresa May è apparsa quasi obbligata a partecipare al blitz dal suo partito. <HS9><HS9>Molti ambienti conservatori temono che l’attivismo militare di Parigi valga a Macron lo status di partner militare preferenziale di Washington a scapito delle tradizionali prerogative britanniche. Dunque, val bene un pugno di missili per restare seduti alla destra dello Zio Sam. E tuttavia la signora May ha dovuto subire per il blitz notturno una feroce contestazione da parte delle opposizioni che lamentano l’assenza di un dibattito parlamentare e la mancata presentazione di prove concrete circa le responsabilità del regime di Assad nell’attacco chimico a Douma prima di accodarsi agli alleati in operazioni belliche. Un tema, quello delle prove di attacchi chimici, delicato e imbarazzante per il governo di Londra dopo la figuraccia del ministro degli esteri, Boris Johnson, sul caso Skripal. Il bilancio, in ogni caso, resta positivo anche per la May.
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