Armi spuntate/ La piaga dei rimpatri impossibili

di Paolo Graldi
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Giovedì 22 Dicembre 2016, 00:14
Agiva sotto i nostri occhi, ma non lo vedevamo. Era accanto a noi, ma ci era invisibile. Si muoveva contro di noi con spudorata protervia, ma non ce ne curavamo abbastanza. Soggetto altamente pericoloso, seguito, ascoltato, controllato ma trattato come se non lo fosse. Era stato in carcere nelle nostre prigioni, condannato a quattro anni, mica per poco.
Anis Amri, il tunisino sospettato della strage di Berlino, scontata la pena, è stato espulso dall’Italia. Ma le autorità di Tunisi, come purtroppo avviene spesso, hanno ritardato le pratiche per il rimpatrio. I tempi di custodia sono così scaduti e l’Italia ha potuto produrre solo un generico provvedimento di allontanamento dal territorio nazionale. 
Con tutta probabilità è stato proprio durante il soggiorno nelle carceri italiane che Anis ha subìto l’indottrinamento alla guerra santa, la “specializzazione” come soldato del terrore jihadista, ma la legge ci ha imposto di lasciarlo andare. Era tutto chiaro ma avvolto nella nebbia della tolleranza. E infatti proprio un “tollerato” era considerato dalle autorità tedesche. Anis, età tra i 21 e i 24 anni, perfettamente conosciuto da tutte le polizie d’Europa.
Circostanze che impongono una riflessione complessiva su come trattare questi soggetti, sui limiti che lo Stato di diritto impone, sulle misure indefettibili per circoscriverne la pericolosità e allontanarne il contagio. Nel ricostruire la rete delle relazioni e dei soggiorni di Anis si ritesse anche il tessuto giuridico e giudiziario di questi personaggi ritenuti irriducibili e tuttavia tenuti al guinzaglio delle indagini con fili che regolarmente si spezzano, si dissolvono. Sbarcato con un barcone a Lampedusa, aveva partecipato alla violenta rivolta dei migranti. Arrestato, giudicato, condannato. Poi, abbandonato al suo destino, nonostante avesse già dimostrato tutto il rabbioso potenziale di violenza.

Al di là dell’esito della caccia al colpevole, probabilmente già nella fase cruciale e definitiva, le maglie della rete protettiva, le capacità predittive dell’intelligence e la risposta immediatamente operativa della polizia si configurano come altrettanti ventri molli, elementi di una risposta frammentaria e singhiozzante che le stesse autorità ammettono non senza imbarazzo. Immediatamente dopo la carneficina il caso sembrava chiuso con l’arresto di un pachistano, indicato da alcuni testimoni: una notte di verifiche ha cancellato in modo perentorio anche il minimo sospetto e il giovane è stato liberato. Ma l’esame del Dna, la mancanza di indizi seri, lo hanno scagionato del tutto quando già le telecamere erano piazzate per lanciare la notizia del clamoroso arresto. Ora si punta sul tunisino. 
Ci sono, sembra, buone carte per ritenere di aver imboccato la strada giusta: Anis Amri sembra perfetto come uomo chiave dell’atto terroristico. Dodici nomi, pacchi di documenti falsi, sospettato e “ascoltato” sul cellulare dalla polizia come soggetto altamente pericoloso che cercava armi («Devo trovare una pistola») e frequentava imam in odore di jihad, tenuti sotto osservazione e alcuni anche espulsi, eppure lasciato circolare in attesa di un’espulsione rinviata anche dalla Germania per pastoie burocratiche.

Di qui lo status di “tollerato”, un ibrido giuridico per chi è in attesa di rimpatrio. Un profilo di finto profugo che diventa manna dal cielo per chi predica le espulsioni incondizionate e che mette la politica della signora Merkel a disagio, accusata addirittura di debolezza e complicità. La polizia tedesca ha imparato la cautela. Parla di soggetto sospettato e non necessariamente di protagonista in prima persona dell’attentato. Non ci verrà molto per scoprirlo con compiutezza. Nella cabina di pilotaggio dell’autotreno sono state rivelate tracce di ogni genere: sangue, impronte, documenti di identità contraffatti, permessi di soggiorno. 

La “scientifica” su questo fronte di indagini avrà un ruolo decisivo perché è proprio in quello spazio ristretto, dove ha trovato un’atroce morte l’autista polacco al quale era stato rubato il Tir e che ha lottato fino all’ultimo respiro per evitare la strage deviando la direzione dell’automezzo, l’analisi di quello spazio renderà possibile ricostruire gli ultimi minuti di quella folle corsa. Potrà dirci quanti erano a bordo, due o più di due, dove sono saliti impossessandosi della guida, in che modo hanno compiuto l’ultimo tratto prima di raggiungere l’obiettivo mercatino, come è avvenuta la colluttazione tra Lukasz Urban, 32 anni, 1,83 di altezza, 120 chili, un omone grande e grosso e il suo aggressore che l’ha finito, secondo la ricostruzione, a strage compiuta, con un colpo di pistola diretto al volto. 
Di gaffe in gaffe, di scivolata in scivolata dal ministro dell’Interno De Maiziere all’ultimo funzionario in campo, la direttiva è la prudenza. Il calcolo dietro questo comportamento è facilmente spiegabile: dai fatti di Colonia ad altre investigazioni sbandierate come eccelse la reputazione degli investigatori si è dovuta confrontare con critiche spesso severe ed anche aspre. Rischi sottovalutati, gente pericolosa lasciata andare, profili criminali e, di più, legati con frange terroriste trattati con approssimazione hanno sollevato riserve sulla strategia complessiva verso il rischio di attacchi: di qui la prudenza. Il che non significa che la macchina investigativa non sia all’arrembaggio, come si richiede a gran voce dalla cancelleria in giù. 

L’orrore berlinese, è ovvio, ha riacceso tutte le spie; spie di ogni tipo, da quelle dello spionaggio vero e proprio a quelle della sorveglianza su tutto il continente e certo la congiuntura natalizia, il moltiplicarsi rituale di incontri e raduni anche molto affollati aumenta la consapevolezza dei rischi. La strategia del Daesh di usare ogni mezzo e di diffondere queste tecniche attraverso articoli dettagliatissimi su come ottimizzare gli assalti utilizzando grossi mezzi (ormai si può dire da Nizza a Berlino) preoccupa moltissimo le centrali di Intelligence proprio per la fluidità di queste azioni, difficilmente permeabili ed eseguibili con strumenti ridotti a zero. Di qui la raccomandazione a farsi vigilantes, tutti. Il contrario esatto della paura quella esortazione che chiede di tenere gli occhi aperti e di ricorrere alla polizia di fronte ad ogni motivato sospetto. 
Contenere la paura significa ridurre al minimo la forza degli assalti, i quali mirano a sollevare grandi divisioni, polemiche feroci e a scatenare una rabbia insensata che fatalmente produrrebbe reazioni a catena sul versante preso di mira. La calma di Berlino nelle ore del dolore e dell’orrore può essere letta in tanti modi. Qualcuno affonda l’analisi nella stessa storia di questa città e del “male assoluto” che qui abitava nella mente dei suoi autori. La vergogna del passato che rende algida ogni risposta anche per l’oggi. Comunque sia la compostezza su quella lunga strada insanguinata dal fanatismo aiuta a tenere la mente fredda e il cuore caldo.
 
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