Terremoto, il miracolo dei borghi intatti: Vezzano, Trisungo e gli altri illesi nel cuore del sisma

Terremoto, il miracolo dei borghi intatti: Vezzano, Trisungo e gli altri illesi nel cuore del sisma
di Renato Pezzini
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Sabato 27 Agosto 2016, 09:52 - Ultimo aggiornamento: 12:44

dal nostro inviato
VEZZANO È come se qualcuno, nelle viscere della terra, avesse lanciato la monetina decidendo, alla fine, che Vezzano doveva essere risparmiata dall'orrore. Intendiamoci, anche qui la terra ha tremato, i muri hanno ballato, la gente si è fiondata fuori dalle case. Centoquarantadue secondi di puro terrore, alle 3.36 di mercoledì. Ma poi qui tutto è tornato come prima, senza morti, senza feriti, senza crolli, senza pianti. Un piccolo borgo uscito senza una graffio dalla devastazione mentre tutto intorno la vita precipitava. E moriva.
Vezzano nelle mappe geografiche è un puntino fra Pescara del Tronto e Arquata, nel cuore della zona martoriata dal sisma. Una quarantina di case di pietra, vicoli stretti, la piazzetta e la chiesa intonse. E le voci che arrivano dalla palazzina di Franco ed Elisabetta Fiori: «Che ci facciamo qua? Venga a vedere». Spaghetti fumanti in tavola, tutto in ordine, muri intatti, senza crepe. E dalla finestra la visione della montagna di macerie sotto cui giace Pescara del Tronto, lì a un passo, così vicina che sembra di poterla toccare. Possibile?

LE SPIEGAZIONI
I geologi avranno di certo buone e autorevoli spiegazioni da dare, il sedimento calcareo più o meno compatto, i substrati del sottosuolo, le imprevedibili direzioni delle onde telluriche, cose così. Che però non riusciranno mai a cancellare la sensazione vertiginosa che il destino - sotto le sembianze del terremoto - abbia davvero giocato a dadi con la vita e le vite di queste montagne, scegliendo chi colpire e chi risparmiare, imponendo la schizofrenia delle proprie leggi, atroci come tutte le leggi che non sono uguali per tutti.
Anche dalla casa della famiglia Capovecchia giungono segnali di una vita che prosegue come se niente fosse successo. I panni stesi alla finestra del primo piano, ancora umidi di lavatrice, la porta aperta, la tv accesa e sul divano il padrone di casa che schiaccia il pisolino del dopo pranzo, qui, a un chilometro o due da paesi dove nessuno riesce a chiudere occhio da giorni. Gli altri sette residenti di Vezzano sono andati altrove per precauzione, ma hanno già fatto sapere che torneranno presto. Tanto è tutto a posto, tutto in ordine.

LA DIMORA ESTIVA
Da Ascoli arriva il proprietario di una bella casa a tre piani. Era in vacanza in Sicilia, è tornato apposta per verificare lo stato di salute della sua dimora estiva e dei fine settimana. Ci entra adesso, per la prima volta. Le scale sono integre, gli infissi non si sono mossi di un millimetro, perfino i bicchieri di cristallo della nonna allineati nella credenza sono intatti. Eppure la botta c'è stata, fortissima. Ha scardinato serrature, ha sbreccato un muro divisorio, ha fatto cadere tre pietre refrattarie che rivestivano il camino. Fine.
Sono indecifrabili le reazioni degli uomini davanti all'enigma delle cose che accadono. Indecifrabile è il pianto di Teresa che sta con la figlia e qualche amico sul ponte che collega i due borghi di Trisungo separati dal fiume Tronto, un bel ponte di pietra, antico, maestoso, che restituisce un'idea concreta di solidità, neppure scalfito dal terremoto. Eppure le scosse hanno battuto forte anche qui, basta alzare lo sguardo per vedere la rocca di Arquata, le sue case collassate, i vigili del fuoco che camminano prudenti sulle macerie.

I SINGHIOZZI
Invece qualche centinaio di metri più a valle, a Trisungo proprio come a Vezzano, è tutto intatto. Ci abitano centosettanta persone, e più della metà non sono mai andate via da casa. Come se il terremoto fosse stato un brivido di una notte e poco altro. Ma Teresa continua a piangere, a maledire questo posto «che io non mi è mai piaciuto», e singhiozza fino a sbottare: «Perché mi sento in colpa, perché noi qui stiamo tutti bene, e loro lì sono morti, hanno perso figli, nipoti, mogli e mariti. Perché noi siamo fortunati e sento che questa fortuna è ingiusta».
Su ad Arquata è tutto fermo, tutto chiuso, il tempo è scandito dalla protezione civile che alza tende, porta ristoro agli sfollati, scandaglia le macerie in cerca di eventuali dispersi. Giù a Trisungo le gente prende il caffè al bar, legge i giornali sportivi, il minimarket è regolarmente aperto, la farmacia pure, l'autofficina ha tre auto in riparazione, e quelli della protezione civile ci vengono per comprare le sigarette. Solo la banca è chiusa, ma su ordine della centrale di Ascoli, che se dipendesse dagli impiegati gli sportelli sarebbero aperti.
 
LA PAURA
Le uniche tracce lasciate dal terremoto sono un po' di tegole cadute dai tetti nella parte più antica del borgo e qualche piccolo crollo in due edifici già malmessi di loro. Sestina e il marito stanno sui gradini di casa mangiando mele. La sera vanno a dormire a San Benedetto del Tronto dalla figlia, la mattina tornano su. «Ma non abbiamo il coraggio di entrare». Eppure la loro casa è perfetta, non s'è staccato neppure un frammento di intonaco. «Ma abbiamo paura lo stesso». Aspettano che i vigili del fuoco dicano che possono tornare ad abitarci, ma i vigili del fuoco per ora non hanno certo l'urgenza di tranquillizzare un paese che è stato appena scalfito dalla furia tellurica.
Certo, anche a Trisungo qualche casa è inagibile e qualche malmostoso lamenta l'assenza di «qualcuno che ci dica qualcosa». Ma i più preferiscono stare in silenzio, quasi si vergognassero di averla scampata. Di là dal ponte il Molino Petrucci è in pieno fermento, coi ritmi di sempre, 10 tonnellate di farina al giorno. E poco distante Simonetta Pennacchia, una bella signora con due grandi occhi gentili, se ne sta in veranda, lo sguardo nel vuoto e le parole che arrivano a fatica: «Mi sento divisa: felice perché siamo tutti vivi, perché la nostra casa è a posto. Ma c'è qualcosa che lavora dentro, che ci fa abbassare la testa. Come se, in qualche modo, questo miracolo fosse la nostra colpa».
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