Vuoto normativo/ Dal nodo licenze all’offensiva Uber: il futuro è in ritardo

di Oscar Giannino
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Mercoledì 22 Febbraio 2017, 00:29
Dopo una lunga trattativa, ieri il governo si è impegnato a un decreto ministeriale che in 30 giorni torni sul punto caro ai tassisti, il rispetto di regole più vincolanti da parte del noleggio con conducente. Vedremo in concreto che cosa prevede il decreto.

Ma la speranza è che non si torni ancora una volta semplicemente alla controversia tra tassisti e NCC sulle sanzioni da applicare ai noleggiatori che non rientrino in rimessa a ogni servizio, e sui vincoli territoriali per offrire il servizio stesso. Perché questa querelle è la stessa che ritualmente si ripete dai tempi della legge quadro 21 del 1992. Ma da allora sono passati 25 anni, e di mezzo c’è stata la rivoluzione tecnologica delle app, attraverso le quali si è sviluppata nel mondo una modalità di offerta del trasporto al pubblico completamente diversa da quella normata allora. 

L’imperativo a cui la politica dovrebbe guardare è una nuova regolamentazione, che consenta di soddisfare legittimamente la nuova domanda di trasporto che accetta le caratteristiche di servizi come quelli offerti da Uber e compagnie assimilate, che sono del tutto distinti e non slealmente concorrenti con taxi e NCC.
Invece no, la politica ha preferito per anni far finta di niente. E ritualmente le città sono rimaste per giorni senza taxi, come i questi giorni. Per anni, la protesta dei tassisti oltre che contro gli NCC era avversa al primo passo verso la liberalizzazione, indicato dai decreti Bersani. O verso l’aumento delle licenze, come capitò contro Veltroni sindaco nel 2006, che accontentò i tassisti aumentando le tariffe. O ancora contro Alemanno, che intervenne in Parlamento con la norma anti NCC di cui i tassisti oggi chiedono ancora una volta l’applicazione. Molti sindaci negli anni hanno promesso di intervenire, per poi lasciare la palla ai governi, che l’hanno calciata sempre più avanti. E ogni volta scioperi, scontri di piazza come ieri, minacce e violenze tra tassisti e NCC, e ultimamente contro conducenti di Uber. 

Ma perché ciò che avviene in centinaia di grandi città al mondo da noi non può avvenire?  Perché ci si è affidati come al solito alla supplenza della magistratura, che in assenza di regole nuove nel 2015 con il Tribunale di Milano ha vietato Uber Pop, erroneamente assimilato al servizio taxi, lasciando solo Uber Black come fosse assimilato a NCC? Uber è pienamente oggi operativa in Danimarca, in Finlandia, nel Regno Unito, in Polonia, in Spagna sia pur con rilascio di licenza. Altri grandi paesi europei come la Germania hanno proibito temporaneamente Uber Pop, ma sono in attesa di una pronunzia della Corte di Giustizia Europea entro fine 2017, sul punto se Uber sia un servizio digitale oppure da equiparare a taxi e NCC. Ma se molti paesi europei aprono alla centralità del consumatore disposto a nuovi servizi, perché da noi questo ragionamento non fa breccia? Cerchiamo di capirlo.

Innanzitutto: i taxi sono un servizio pubblico? Secondo la legge quadro del 1992, sì. E allora potrebbero essere precettati in caso di sciopero dichiarato senza preavviso, come in questi giorni ancora una volta nelle città italiane, pensano alcuni. Per quanto però possa sembrare paradossale, non è così. Ci sono infatti due sentenze, una della Cassazione Penale nel 2008 e l’altra del TAR della Toscana nel 2011, per le quali il servizio taxi è sì contingentato nell’offerta da una licenza pubblica, ma questo non significa che il servizio offerto dai privati tassisti, per quanto organizzato secondo tariffe rigide e turni amministrativi, sia a tutti gli effetti un servizio pubblico. Siamo in Italia, che ci volete fare.

Ma taxi e Uber o assimilate sono lo stesso servizio? No. L’offerta di Uber è quella di un privato conducente che si avvale di una piattaforma tecnologica messa a disposizione dalla multinazionale per offrire il servizio, la domanda accetta consapevolmente tariffe variabili al momento secondo l’andamento di domanda e offerta, non fisse come nel caso del taxi, e attraverso l’app può controllare i giudizi sul conducente e il servizio espressi dai consumatori che l’hanno preceduto. La domanda che si rivolge a Uber è aggiuntiva rispetto a quella soddisfatta dai taxi, non è la stessa torta da dividersi in fette più piccole a eguali condizioni. Si creano posti di lavoro aggiuntivi, e con Uber Pop anche doppi lavori per arrotondare liberamente. Che male c’è, in tutto questo? Le licenze fisse dei taxi al contrario devono essere commisurate ai picchi potenziali come alla stasi di domanda, per questo le tariffe sono elevate e gli utenti non superano il 10% della popolazione italiana.

Chi ci rimette? Con la vecchia normativa, non solo non si soddisfa la domanda aggiuntiva degli italiani, che la vedono praticata in centinaia di città del mondo e a casa nostra no. Ci rimettono anche gli utenti dei taxi. Secondo un rapporto comparato UBS sulle tariffe 2015, tra 71 diverse città il tragitto in taxi di 5 chilometri a Roma, con 14,2 dollari a corsa, si trova alla 54ma posizione più alta. E Milano, con 17,35 dollari, alla 64ma. A Londra il costo è di 10,1 dollari, a New York di 11,7. Se si compara il prezzo del taxi con la tariffa di un bus o metro, Roma e Milano salgono al 60mo e 68mo posto, con tariffe di taxi che costano 9 e 11 volte quelle del bus, mentre a Londra il rapporto è di 2,5 e a New York di 4,2. 

Ma i tassisti ci rimettono, se si lascia libertà a Uber e NCC? Sì, ma non per l’impropria concorrenza visto che i servizi sono diversi, bensì per il costo della licenza. Ovviamente dunque aprire a regole e offerte nuove e diverse significa per la politica doversi porre esplicitamente questo problema. Il valore della licenza dei taxi si paga tra privati sul mercato secondario (a Milano è tornata con EXPO a lievitare verso 200mila euro, a Roma stiamo sui 160-170 mila). Ergo per aprire a Uber senza conflitti occorre predisporre per esempio un meccanismo che riconosca ai detentori di licenza taxi (che vogliano cederla a fronte della nuova disciplina) la quota residua non ammortata della licenza stessa, a seconda dunque dell’anno di acquisto e del prezzo medio rilevato in quell’anno, e di tabelle annuali di ammortamento della licenza stessa, come si fa per i beni strumentali d’impresa. Così per esempio si affronterebbe il problema di chi in questi ultimi anni ha fatto mutui anche molto onerosi per rilevarla, dopo aver perso il lavoro precedente e aver superato le prove previste in ogni Comune per diventare licenziatario. 

La politica ha sempre preferito non scegliere e prorogare il vecchio schema. Dopo aver assistito per anni allo sviluppo di un mercato secondario che in teoria non avrebbe dovuto esistere. E che ha trasformato il valore della licenza in una sorta di equivalente del TFR di fine rapporto. Altre categorie potrebbero eccepire che, per esempio, ai commercianti non è stato riconosciuto un corrispettivo alla liberalizzazione delle licenze. Ma un bar o un ristorante è un luogo aperto al pubblico che deve sottostare a molte regole di standard determinati dalle autorità amministrative nell’offerta del servizio, senza tuttavia essere un servizio pubblico come il taxi (sia pure a metà, come abbiamo visto).

E’ così complicato immaginare soluzioni consimili, mettendo il consumatore al centro e non le categorie di un mondo che ci ostiniamo a non aprire al nuovo? Sì, è comunque difficile, perché richiede conoscenze dei costi transitori di regolazione, simulazioni econometriche, appropriatezza giuridica in materia di disciplina della concorrenza. Ma non si costruisce un mondo nuovo, più libero nei consumi e con più occupati e con servizi a miglior prezzo, semplicemente impiccandosi alla rimessa degli NCC, al telefono fisso e non mobile per ricevere un ordine di servizio, e a limiti territoriali di offerta che corrispondono a quelli degli staterelli ottocenteschi.
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