Siae, non sempre il monopolio è un danno

di Osvaldo De Paolini
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Venerdì 28 Luglio 2017, 00:02 - Ultimo aggiornamento: 00:07
Non è chiaro se l’Antitrust europeo abbia davvero intenzione di avviare una procedura d’infrazione contro l’Italia per non aver adeguatamente ottemperato all’obbligo di regolamentare il mercato dei diritti d’autore. Di sicuro le tensioni che nelle ultime settimane si sono addensate attorno alla Siae, in verità alimentate anche da sciocchezze e qualche falsità, suggeriscono qualche riflessione sull’argomento. Cominciando con l’affermare che ci sono casi in cui il monopolio è utile, anzi sarebbe dannoso eliminarlo; e che la battaglia apparentemente libertaria ingaggiata contro la Siae dall’italo-inglese Soundreef, sede fiscale nel Regno Unito, in tempi di Brexit suona perlomeno sospetta.

Quello dei diritti d’autore è un tema che può offrire letture contraddittorie per le caratteristiche insolite. Però chiunque può comprendere perché quelli legati alla musica degli autori famosi fanno gola: fruttano un sacco di soldi. Poco fascino esercita invece la protezione del diritto d’autore nella lirica, nel teatro, nella letteratura, nelle arti figurative, nella danza e soprattutto nella musica “non redditizia” proposta da giovani autori ancora sconosciuti. Che però vanno anch’essi sostenuti e incoraggiati. Viene allora facile comprendere lo scopo di entità come la Siae, società pubblica ma non finanziata dallo Stato, senza scopo di lucro e gestita da autori ed editori, che si occupa di intermediare i diritti d’autore in virtù di un’esclusiva che le permette di svolgere l’attività a vantaggio dell’intera filiera creativa, anche in ottica solidaristica. Amministrando vari repertori, la società redistribuisce le risorse in modo che quelli più remunerativi, come appunto la musica, supportino quelli che lo sono meno offrendo così un’opportunità di affermazione ai più meritevoli. Non a caso Siae è sotto la vigilanza del ministero dei Beni culturali, della Presidenza del Consiglio, del ministero dell’Economia, dell’Agcom oltre a dover riferire annualmente al Parlamento sui risultati dell’attività svolta.

Insomma, un’entità d’interesse nazionale che da quando tre anni fa venne affidata alle cure di Filippo Sugar, oltre a migliorare sensibilmente i conti (e certamente ne aveva bisogno) si è calata con determinazione nell’arena mondiale dove i grandi player come Google, Apple, Spotify, Amazon o Netflix dominano e di fronte ai quali non ci si può presentare frammentati, senza potere di trattativa. Non è forse per questo che i 2.000 editori americani di quotidiani si sono alleati chiedendo una deroga all’antitrust Usa per fronteggiare uniti lo strapotere dei giganti del digitale? Sicché non è scorretto affermare che il governo italiano ha recepito la Direttiva Barnier - tesa a semplificare questo settore rendendolo più trasparente - in maniera coerente cogliendo l’implicito invito all’aggregazione. D’altro canto, se fosse davvero così cogente introdurre alternative che celebrino la concorrenza, perché in non pochi Paesi europei vige la collecting nazionale non imposta per legge, ma scelta dalla categoria? Risposta semplice: perché l’intermediazione dei diritti d’autore non può essere mercificata, pena una concorrenza che non farebbe che produrre inefficienza, costi maggiori e servizi peggiori.

Si dirà: ma negli Stati Uniti, unico vero esempio di concorrenza aperta tra più società di raccolta del diritto d’autore, le cose funzionano. Falso: da qualsiasi punto di vista si analizzi la situazione di quel Paese, emerge con chiarezza che è in assoluto il peggior mercato nella raccolta dei diritti, il più discriminatorio nei confronti degli autori e il più conflittuale tra autori e utilizzatori. Ne sono prova le numerose class action subite da Spotify proprio a causa della mancanza di chiarezza sui repertori in licenza. É solo grazie alla forza della lingua e alla loro influenza nella musica mondiale che gli Stati Uniti possono permettersi tale inefficienza, forti di oltre il 30% di diritti raccolti all’estero. Da noi, invece, da fuori arriva solo il 5%. Dunque, se il nostro sistema si dovesse frammentare, fatalmente diverrebbe inefficiente oltre che teatro di speculazioni selvagge. E in un paese dove persino lo Stato fatica a raccogliere le imposte, gran parte della capacità di raccolta andrebbe perduta riducendo la capacità di produrre cultura.

Per avere un’idea delle dimensioni della società guidata da Sugar, basti dire che gestisce 45 milioni di opere e oltre 1,2 milioni di contratti di licenza con circa 580.000 soggetti che utilizzano il suo repertorio. Per questo ha istituito una task force di almeno 500 controllori che battono quotidianamente la penisola per ridurre al minimo le occasioni di “evasione”. Bene ha fatto perciò il ministro Franceschini a schierarsi a fianco della Siae nell’ambito di un provvedimento che tutela oltre 1 milione di addetti. Il che non autorizza la Siae a sedere sugli allori, ma deve servire di stimolo a svecchiarsi ulteriormente e a ridurre certe rigidità che ancora la frenano.


 
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